Le 24 Ore da ricordare - FOTO GALLERY
È passato poco più di un secolo da quando, il 26 maggio del 1923, si disputava la prima edizione della 24 Ore di Le Mans. Da allora, sul circuito della Sarthe è successo di tutto: trionfi, sconfitte, drammi, autentiche tragedie. Ogni edizione, o quasi, ha fatto registrare episodi degni di entrare negli annali dell’automobilismo: ricordarli tutti è impossibile. Per questo, tra i tanti che meriterebbero menzione, ne abbiamo scelti dieci. Ve li raccontiamo qui sotto, rimandandovi alla galleria di immagini in testa all'articolo per i relativi reperti fotografici.
L’unica di Tazio. Leggenda nella leggenda, quella di Tazio Nuvolari. Al suo glorioso palmarès non poteva mancare la vittoria a Le Mans: arriva nel ᾽33, con l’Alfa Romeo 8C 2300 condivisa con il francese Raymond Sommer, che si è già aggiudicato l’edizione precedente con Luigi Chinetti. L’Alfa è la vettura da battere, avendo al suo attivo già due successi (il primo, nel ’31, con Howe e Birkin) ed essendo destinata a ripetersi nel ’34, con Chinetti ed Étancelin. Nel ’33 è proprio il contributo del “mantovano volante” a decidere il duello con i compagni Chinetti e Varent, vinto per una manciata di secondi.
La prima del Cavallino. La prima edizione del dopoguerra è anche la prima a registrare l’affermazione di una vettura di Maranello. La Ferrari è una Casa costruttrice giovane e il Drake non dispone di grandi risorse. Così, è Luigi Chinetti a convincerlo ad affidargli un paio di 166 MM Touring, dotate del motore V12 di due litri. In lizza ci sono 49 vetture: la Ferrari di Lucas e Dreyfus si ritira alla sesta ora per un incidente, mentre quella di Lord Seldson e dello stesso Chinetti, che guida per quasi tutta la gara, s’impone.
C-Type all’avanguardia. Non è, quello del ’53, il primo successo della Jaguar a Le Mans, né sarà l’ultimo, avendo la Casa britannica conquistato l’alloro sette volte. Ma l’affermazione di quell’anno va ricordata perché, per la prima volta, compaiono sulle vetture britanniche i freni a disco. Nati per gli aerei, costituiscono una soluzione vincente, nonostante la concorrenza agguerrita. Le Jaguar hanno vita facile in gara e conquistano il primo, secondo e quarto posto, con gli equipaggi Rolt-Hamilton, Moss-Walker e Whitehead-Stewart.
Il giorno più nero. Le premesse per una gara straordinaria ci sono tutte, l’11 giugno ’55. Il livello delle vetture è altissimo: l’Aston Martin porta le DB3 S, la Jaguar le D-Type, la Ferrari le 750 e 121 LM, la Maserati le 300 S. Poi c’è lo squadrone della Mercedes, che ha già vinto nel ’52. Il destino, però, è in agguato. Alle 18.28 di sabato, nel corso del 33° giro, Lance Macklin (Austin Healey), per evitare la Jaguar di Hawthorn - che forse sta per entrare ai box, ma ci ripensa - sterza a sinistra nel momento in cui stanno arrivando le Mercedes. Fangio lo evita, Pierre Levegh non ci riesce. La sua vettura decolla, finisce in tribuna ed esplode: le vittime sono 82. La gara continua: vincono Hawthorn e Bueb con la Jaguar.
Il pilota fantasma. Nel 1965 l’interesse è alto, perché la Ferrari, dopo anni di dominio, si trova a fare i conti con il colosso americano Ford. Ma le GT 40 sono acerbe: dopo sette ore, si sono tutte già ritirate. Non che alle Ferrari le cose vadano meglio: le tre macchine ufficiali sono a loro volta costrette alla resa. Così, le speranze sono riposte nella 250 LM della Nart, il team nordamericano di Chinetti, affidata a Masten Gregory e a Jochen Rindt. Che non tradiscono le aspettative e vincono, ma con una sorta di giallo. Molti anni dopo, Edward Hugus, driver americano, racconterà di aver sostituito Gregory, a disagio nel buio, in uno stint intorno alle 4.00 del mattino, per poi svanire nel nulla. Al momento delle rivelazioni di Hugus, però, tutti i possibili testimoni della storia sono già scomparsi...
Un’impresa da film. Con un piglio hollywoodiano, la rivincita della Ford nei confronti di Enzo Ferrari, che non aveva voluto cedere la propria azienda al gigante di Detroit, è diventata nel 2019 oggetto di una produzione per il grande schermo (“Le Mans ’66 – La grande sfida”). Agli sceneggiatori va il merito di aver portato alla ribalta la figura del pilota inglese Ken Miles, il cui valore è stato a lungo misconosciuto. Miles era invece stato protagonista dello sviluppo delle Ford GT 40 che, nel ’66, dominano la 24 Ore. Anche l’epilogo è da film: per sottolineare la propria supremazia, la Ford opta per un arrivo in parata delle sue vetture. Miles, che merita il successo, viene beffato, perché la vittoria viene assegnata ad Amon e McLaren, avendo quest’ultimi percorso una distanza maggiore da una posizione più arretrata sulla griglia di partenza.
Un amore coronato. Tra la Porsche e Le Mans c’è sempre stato un feeling particolare, manifestatosi con ripetute partecipazioni fin dai primi anni 50. Il successo del 1970 ha, però, un sapore particolare. Il duello è concentrato tra le 917 tedesche e il folto lotto di Ferrari 512 S in pista. Tre vetture di Maranello si mettono fuori gioco in una carambola a Maison Blanche, altre abbandonano per incidenti o guasti. Anche le Porsche non sono esenti da problemi: a spuntarla è così la 917 K del team austriaco Salzburg di Attwood e Hermann, che inaugura una striscia di 19 vittorie totali. Il 1970 è anche il primo anno in cui, dopo la protesta di Ickx dell’edizione precedente, la partenza è data con i piloti a bordo con le cinture allacciate, e non più con la celebre corsa a piedi.
Gloria per il rotativo. Il flirt tra la Mazda e il motore Wankel ha radici lontane, ma la Casa giapponese ha anche il vanto di essere l’unica ad aver vinto la 24 Ore con una vettura dotata di questo tipo di propulsore. A Le Mans la Casa si era affacciata nel 1990, ma senza successo. Un anno dopo, le cose vanno diversamente grazie alla 787 B, che monta un quadrirotore di 2.6 litri da 700 CV. La concorrenza è agguerrita (Jaguar XJR-12, Mercedes C11, Peugeot 905, Porsche 962), ma è la Mazda di Herbert, Gachot e Weidler a tagliare per prima il traguardo.
Volare oh, oh! Ci sarebbe stato poco da scherzare, dopo aver visto il drammatico volo della Mercedes CLR di Mark Webber durante il warm-up della 24 Ore del ’99, perché l’incolumità del pilota era stata messa a rischio dai problemi di aerodinamica della vettura. C’erano già stati dei segnali di allarme, ma la Casa di Stoccarda non intendeva rinunciare a battersi in un’edizione che la vedeva confrontarsi con Toyota, BMW, Nissan e la debuttante Audi. Dei diversi incidenti (uno occorso anche a Peter Dumbreck, finito nel bosco), quello di Webber è rimasto impresso nella memoria collettiva: l’improvvisa portanza, generatasi sotto il fondo dell’auto, la fece decollare sul dosso di Mulsanne, mentre viaggiava a 290 km/h. A vincere la gara sarà la BMW V12 LMR di Winkelhock, Martini e Dalmas.
Gasolio sugli scudi. A partire dal 1999, anno del debutto, l’Audi si è impegnata nelle gare di durata: dei suoi 13 successi a Le Mans, alcuni sono stati conseguiti con vetture innovative. Il 2006, in particolare, vede la Casa tedesca equipaggiare la R10 TDI di un V12 a gasolio di 5.5 litri di cubatura con 650 CV. Werner, Pirro e Biela portano la vettura a un successo non scontato, ché la Pescarolo-Judd di Loeb, Hélary e Montagny si rivela una concorrente insidiosa. Del 2012, invece, è dell’Audi la prima vittoria di un’ibrida, la R18 e-tron Quattro.
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