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Volkswagen
Dal 1958 a Wolfsburg non si produceva così poco

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Dal 1958 a Wolfsburg non si produceva così poco
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Dalla Germania continuano ad arrivare segnali allarmanti sul complesso produttivo della Volkswagen a Wolfsburg. Stando alle ultime indiscrezioni di stampa, la produzione della storica fabbrica sassone starebbe subendo in modo oltremodo pesante le conseguenze della crisi dei chip: da inizio anno le catene di montaggio avrebbero sfornato appena 300 mila veicoli. Si tratta di una cifra decisamente inferiore alla capacità massima e alla media dell’ultimo decennio (intorno ai 780 mila veicoli con un picco massimo di 815 mila nel 2015), nonché di un netto passo indietro per un impianto destinato fino a pochi anni fa a superare il milione di unità. Per riscontrare un analogo livello produttivo bisogna tornare al 1958, quando quelle linee usciva ancora il mitico Maggiolino. 

Chip e non solo. Il crollo produttivo, che per l’intero anno si sostanzierà in un dato inferiore ai circa 500 mila veicoli assemblati nel 2020 (l’anno scorso la produzione è scesa sotto la soglia del mezzo milione di unità per la prima volta in oltre 60 anni), è stato attribuito principalmente alla carenza di semiconduttori, che sta determinando frequenti stop alle attività manifatturiere e il conseguente ricorso all’orario ridotto per i circa 60 mila lavoratori. In realtà, la crisi di Wolfsburg è legata non soltanto alle attuali problematiche sul fronte delle forniture di componenti ormai cruciali per qualsiasi veicolo, ma anche fattori più strutturali che affondano le radici in alcune scelte strategiche influenzate, secondo l’azienda, dal peso delle organizzazioni sindacali. Sarebbero state proprio queste scelte a fornire le basi per un ragionamento che ha portato l’amministratore delegato del gruppo Volkswagen, Herbert Diess, a delineare un quadro drammatico per lo stabilimento sassone e per l’intera forza lavoro. A metà ottobre, stando a diverse fonti di stampa tedesche, Diess avrebbe colto l’occasione della sua presenza in una riunione del consiglio di sorveglianza (all’interno del quale è forte la presenza dei rappresentanti sindacali) per lanciare un messaggio molto chiaro: una transizione verso la mobilità elettrica troppo lenta, unita all’ingresso sul mercato tedesco di concorrenti agguerriti quali la Tesla e numerose aziende cinesi, mette a rischio almeno 30 mila posti di lavoro, circa un quarto dell’intero organico del marchio Volkswagen in Germania. E, ovviamente, la minaccia riguarda soprattutto i lavoratori di Wolfsburg.

Volkswagen plant Wolfsburg

Il ruolo dei sindacati. Diess avrebbe messo sotto accusa proprio alcune scelte del recente passato, a partire dall’insistenza dei sindacati di escludere Wolfsburg dalla prima tornata di investimenti per l’elettrificazione. Le intenzioni del manager bavarese erano, invece, completamente diverse: doveva essere proprio la fabbrica voluta da Adolf Hitler e Ferdinand Porsche a diventare il primo sito industriale e lo stabilimento modello della nuova era all’insegna degli elettroni, non Zwickau, trasformata poi nel fiore all’occhiello della produzione elettrica della Volkswagen grazie ai massicci investimenti per la sua totale riconversione e l’avvio della produzione dei primi modelli della famiglia ID. I sindacati, a partire dall’ex presidente del consiglio di fabbrica, Bernd Osterloh, hanno invece bloccato qualsiasi ipotesi di ammodernamento di Wolfsburg nel timore di un forte impatto occupazionale. In tal senso, Diess ha ricordato un evento del suo passato all’interno del management della BMW: l’opposizione dei sindacati britannici alla riconversione di un impianto vicino a Birmingham e la conseguente decisione del gruppo bavarese di chiuderne i cancelli. 

Bassa competitività. In ogni caso, anche Wolfsburg sarà sottoposto a una serie di interventi per prepararlo alle produzioni elettriche, ma ci vorranno ancora diversi anni di lavoro: il sito inizierà a produrre la sua prima elettrica, l’ammiraglia Trinity, solo nel 2026. Nel mentre, management e sindacati dovranno affrontare un problema di competitività dello stabilimento che si trascina ormai da tempo ed è legato anche a una gamma prodotto non più così prioritaria per le strategie del gruppo, fortemente concentrata sulla transizione elettrica. L’impianto è la casa della Golf, per decenni regina incontrastata del mercato europeo ma oggi incapace di replicare, con l’ottava generazione, i successi del passato. Per esempio, stando alle elaborazioni della Jato, la Dacia Sandero e la Peugeot 208 hanno conquistato più volte il primo posto delle classifiche mensili delle vendite europee. La Golf, invece, sta accusando un progressivo calo delle consegne. Nel 2020 sono stati circa 312 mila gli esemplari commercializzati, in decisa contrazione rispetto alle oltre 410 mila del 2019. Certo, colpa anche delle conseguenze della pandemia del coronavirus, ma la flessione è ancora più decisa rispetto ad appena dieci anni fa: nel 2010 le vendite avevano superato la soglia del mezzo milione. D’altro canto, le berline faticano sui mercati di tutto il mondo, schiacciate dalla concorrenza di Suv e crossover.  

Volkswagen plant Wolfsburg

Questione di numeri. La Golf rappresenta dunque un problema di non poco conto per il marchio Volkswagen e per lo stabilimento di Wolfsburg, anche perché gli altri modelli prodotti dalla fabbrica non forniscono di certo un contributo rilevante in termini numerici. Attualmente dall’impianto escono anche le Volkswagen Touran e Tiguan e la Seat Tarraco. La prima è ormai quasi giunta alla fine del suo ciclo di vita (l’attuale versione è stata presentata nel 2015) e difficilmente avrà un’erede, visto che ormai le monovolume rappresentano una fetta di mercato minoritaria e pure le sue dirette concorrenti, a partire dalla Renault Scénic, sono destinate a sparire dai listini. Nel 2020 le vendite europee del modello Volkswagen hanno sfiorato le 47 mila unità, con un calo del 37,2% rispetto al 2019. I numeri non premiano completamente neanche la Tiguan, che ha beneficiato di un restyling poco più di un anno fa, ma deve fare i conti con un’intensa concorrenza nel segmento di riferimento delle Suv e delle crossover medie, dove, tra l’altro, si sovrappone con diversi modelli analoghi di altri marchi del gruppo Volkswagen (Audi Q3, Skoda Karoq e Seat Ateca): l’anno scorso ne sono state vendute oltre 136.600 unità, non certo poche, ma in calo del 33,9% rispetto alle 225 mila del 2019. Infine, non può certo essere la Seat Tarraco a risollevare le sorti di Wolfsburg: la Suv a sette posti della Casa di Martorell è arrivata sul mercato nel 2019 e nel suo primo anno di commercializzazione ha raggiunto vendite per 32.600 unità a livello globale. In Europa sono stati 29.600 gli esemplari piazzati nel 2020 e 21.230 nel 2021. 

La risposta alla crisi. In questo quadro, già delicato, la crisi dei chip non fa che aggravare le cose: nell’attuale situazione di scarsità di forniture, tutti i costruttori cercano di ottimizzare la produzione privilegiando modelli di recente lancio e a più alta marginalità. Per il gruppo Volkswagen, è naturale che tutte le attenzioni vengano riversate sui veicoli simbolo della nuova era elettrica. Non a caso sono ben poche le notizie di rallentamenti produttivi in impianti come Zwickau dedicati ai modelli ID, mentre a Wolfsburg gli stop&go sono ormai all’ordine del giorno. Da qui la richiesta di Herbert Diess d’imprimere un colpo di acceleratore alla riconversione dell’impianto sassone, sostenuta dal nuovo presidente del consiglio di fabbrica, Daniela Cavallo, unitamente all’appello di assegnargli altri prodotti dai grandi volumi oltre alla Trinity. In Germania nessuno intende permettere che Wolfsburg, uno dei templi dell’auto europea, finisca a condividere lo stesso destino di altri grandi, storici, siti industriali del Vecchio Continente, come Mirafiori in Italia, di recente soggetto a un piano di riqualificazione industriale per l’ennesimo tentativo di rilancio, o Boulogne-Billancourt, in Francia. 

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