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Transizione energetica
Ecco perché le Case europee rallentano l'addio all'endotermico

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Ecco perché le Case europee rallentano l'addio all'endotermico
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Piede sul freno. Fino a ieri era una corsa a dichiarare le date del passaggio definitivo alle zero emissioni. Ma da un po’ di settimane, sulla transizione elettrica, si moltiplicano i distinguo nelle esternazioni dei grandi costruttori. E se pure da Wolfsburg arrivano dei segnali di prudenza sui tempi, sulle modalità e persino sull’opportunità dell’abbandono dei motori termici, vuol dire che nelle grandi strategie qualcosa sta cambiando.

Un allineamento di segnali non casuale. Posizione non isolata. Carlos Tavares, quasi nello stesso momento, ha ribadito la sua visione: “Con il mix energetico dell’Europa, un veicolo elettrico deve percorrere 70 mila chilometri prima di compensare l’impronta di CO2 creata dalla fabbricazione della batteria. Alla fine, è meglio accettare auto ibride termiche molto efficienti, in modo che l’auto rimanga accessibile, o è necessario avere veicoli 100% elettrici che le classi medie non potranno permettersi (…)? Questo è un dibattito sociale che mi piacerebbe avere”. Nel frattempo, Stellantis ha presentato un rinnovato motore turbodiesel, da produrre a Pratola Serra, e la BMW ha annunciato che investirà su una nuova famiglia di propulsori endotermici, sia a benzina sia a gasolio. Un allineamento di segnali che non sembra una coincidenza.

Stellantis CEO Carlos Tavares discusses the company’s software strategy during the Software Day presentation on Dec. 7, 2021. Stellantis will deploy next-generation tech platforms, build on existing connected vehicle capabilities to transform how customers interact with their vehicles, and generate approximately €20 billion in incremental annual revenues by 2030.

Ora si può dire che il re è nudo. Che cosa sta succedendo, dunque? Un generale ripensamento sulla strategia della transizione all’era elettrica? Una marcia indietro? Cerchiamo di fare chiarezza. Intanto, meglio dire subito che non è così. L’auto a batteria resta l’obiettivo a tendere. Quello che sembra incrinarsi è l’approccio oltranzista che individua nell’elettrico non una delle soluzioni per abbattere la CO2 e quindi il riscaldamento globale, da impiegare insieme con altre, ma l’unica e indiscutibile ricetta. Un approccio che era nato dalla oggettiva convergenza tra le istanze ambientaliste più radicali e l’interesse di alcuni gruppi automobilistici – in primis Volkswagen – che sulla svolta elettrica hanno scommesso tutto, mettendo a repentaglio la loro stessa sopravvivenza nel caso che l’auspicata conversione del mercato non si verificasse. Tutti i costruttori sono ormai impegnati in questa sfida epocale, con piani di introduzione di un numero crescente di modelli elettrici e, in taluni casi, con date prefissate per l’abbandono della propulsione termica da tutti i loro nuovi modelli. Ma a parte i pochi che sono già pronti - entro il 2025 - alla transizione totale alle zero emissioni, la maggior parte è preoccupata delle conseguenze a vari livelli – di mercato, occupazionale, finanziario – che un passaggio troppo rapido all’elettrico comporterebbe (temi su cui il nostro giornale, nell’edizione cartacea come sul web, è più volte intervenuto, raccontando le contraddizioni di una rivoluzione affrettata). Molti manager di punta lo hanno ripetutamente espresso e sicuramente altre voci si leveranno, perché ormai è sdoganato dire che “il re è nudo”. Cioè che considerare raggiungibili certi obiettivi temporali ha in sé una bella dose di ipocrisia.

Le ragioni di una svolta. Ma che cosa ha determinato questa incrinatura del fronte elettrico? Una serie di circostanze, contingenti e strutturali. Vediamole. Tra le prime, la più importante riguarda la crisi dei microchip: è ormai chiaro a tutti che la carenza delle forniture è destinata a durare molto più di quanto alcuni pensassero originariamente. L’anno scorso diversi osservatori davano il terzo trimestre del 2021 come orizzonte temporale per il ritorno a una relativa normalità. Il nostro giornale era molto scettico su questa prospettiva, e in effetti ora si parla di un altro anno nella stessa situazione. I tempi di attesa per un’auto nuova superano abbondantemente i sei mesi, in alcuni casi sono vicini ai dodici. Le Case stanno posticipando diversi lanci di nuovi modelli. Ora, considerando che le vetture elettriche richiedono una quantità di semiconduttori maggiore di un’auto a combustione, inevitabilmente i ritardi si accumuleranno spostando in avanti, non sappiamo ancora di quanto, tutto il programma di conversione alle zero emissioni. Tra le questioni strutturali, invece, ne saltano all’occhio due: gli squilibri geografici e un bacino di consumatori ancora troppo ristretto.

Cliente cercasi disperatamente. Sul primo punto l’Acea (l’associazione europea dei costruttori) sottolinea, già da qualche anno, che i sei Paesi con il Pil più alto (Germania, Regno Unito, Francia, Olanda, ma ci sono anche Italia e Spagna) generano oltre due terzi della domanda europea di Bev. È l’immagine di un continente a due velocità che non soltanto si scontra con l’idea di un’Europa unita e solidale, ma che rischia di creare non poche difficoltà alle Case nella pianificazione strategica dei prodotti da lanciare sullo stesso scacchiere geografico. Convertire l’intera gamma di veicoli nuovi alla propulsione elettrica equivarrebbe a questo punto a rinunciare a coprire interi mercati. Allo stesso modo, e arriviamo alla seconda questione, le Case si stanno rendendo conto che non basta chiudere il rubinetto della produzione di auto endotermiche dal 2030 o dal 2035 per creare artificialmente una domanda, in qualche modo “costringendo” la gente ad acquistare le auto a batteria. Perché fino a che i prezzi delle vetture generaliste non scenderanno (e di certo il rincaro delle materie prime, dei prodotti energetici e del litio non aiuta), la classe media, non potendo più comprare termico, semplicemente non comprerà nulla e si terrà la vecchia auto finché potrà. Il rischio per i costruttori in un mercato “electric only” è di avere volumi di vendita dimezzati.

2020-Commissione-Europea-1

E ora che cosa dobbiamo aspettarci? Probabilmente che l’industria continentale dell’auto ritrovi un po’ di unità nel dialogo con la Commissione europea, facendosi promotrice di soluzioni più equilibrate che, più che rallentare lo sviluppo dell’elettrico, non escludano pregiudizialmente l’apporto di altre tecnologie, come i carburanti sintetici e biologici e l’idrogeno, nella lotta alla CO2, e che contemplino la sopravvivenza oltre il 2035 dei motori termici, diesel incluso, almeno per determinati impieghi. Sarebbe auspicabile, e la stessa Commissione ha lanciato un segnale di ricettività aprendo una consultazione sul futuro della mobilità. La ricerca sull’auto a batteria nel frattempo andrà avanti, per avere sistemi di gestione dell’energia più efficienti, vetture più aerodinamiche, percorrenze più elevate e costi più gestibili. Ma come ha detto Diess, “l’introduzione dei modelli elettrici è meglio scaglionarla”. Accanto a ciò, proseguirà lo sforzo per dotare l’Europa di gigafactory per la produzione di accumulatori, perché quello è un fattore chiave nella competizione con l’Asia.

Il nodo dell’energia. Resta aperta la questione dell’approvvigionamento energetico: il mix delle fonti, a livello di continente europeo, è ancora fortemente sbilanciato verso quelle fossili e modificare questo rapporto richiederebbe un’azione più energica da parte degli Stati membri, ma non è così semplice. Tanto per fare un esempio che ci riguarda da vicino: per raggiungere gli obiettivi UE del 2030, l'Italia dovrebbe installare 8 gigawatt di rinnovabili all'anno; nel 2020 siamo arrivati a 0,8. E il nostro non è neppure tra i Paesi messi peggio. In Germania le centrali a carbone giocano un ruolo ancora significativo (circa un quarto) nella produzione di energia, in Polonia dominante (vicino al 90%). La Francia ha il nucleare, e ciò fa sì che ottenere un kWh di energia immetta nell’atmosfera solo 7 grammi di CO2 (contro i mille della Polonia). Sia noi sia la Germania abbiamo bandito le centrali atomiche. Ma siamo così sicuri di poterci permettere a lungo il lusso di farne a meno?  

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