La chiamano Urbex, sintesi di Urban exploration. Piace molto ai ragazzi, ma - a onor del vero - piace anche a noi. Perché andare a cercare, scoprire, qualche volta violare vecchi edifici ormai deserti, può avere un fascino irresistibile. Se, poi, si parla di fabbriche d'auto abbandonate, il sapore è ancora più forte. E si accompagna a un misto di malinconia e di rimpianto per quello che fu. Per quel tempo in cui dai capannoni ora semidistrutti uscivano modelli fiammanti, pezzi unici, prototipi. Per un'epoca in cui operai, che erano piuttosto fior d'artigiani, forgiavano gioielli dei quali l'industria italiana andava orgogliosa. Di tutto questo, spesso, non è rimasto nulla, nella periferia milanese come in quella di Torino, la nostra Detroit ormai deindustrializzata (o quasi). Siamo andati a scovarne più d'una, di queste testimonianze di un passato glorioso. Trovando ammassi di metalli arrugginiti, foreste vergini di vegetazione che, lasciata finalmente in pace, cresce a dismisura, ingoiando tutto, cancellando tracce e memorie. E cogliendo i segni della presenza di un'umanità derelitta, che non trova albergo decoroso. Un viaggio in un passato che meriterebbe un destino migliore e che forse, talvolta, lo incontrerà, se i tanti progetti di riqualificazione, ipotizzati e presentati, arriveranno mai a compimento. Un percorso dentro storie che, per noi che l'auto l’amiamo e continueremo ad amarla, hanno comunque un'impareggiabile valenza simbolica.

Innocenti (Milano Lambrate)

Quando Milano era, dopo Torino, la seconda città italiana dell'auto, l'Innocenti ne costituiva uno dei simboli, insieme con l’Alfa Romeo, ancora più radicata nel tessuto e nel cuore lombardi. Fino al 1960, in realtà, l'azienda voleva dire scooter, anzi Lambretta, la rivale per eccellenza della Vespa Piaggio: anche se, in verità, a decretarne la fortuna industriale erano stati i tubi, essenziali nel dopoguerra per i ponteggi del grande boom edilizio. Poi, però, su spinta di Luigi Innocenti, figlio di Ferdinando (che scompare nel ’66), dalla periferia est di Milano, quartiere Lambrate, iniziarono a uscire anche automobili, sempre più richieste da un’Italia che vive la grande stagione della motorizzazione di massa, figlia di un benessere finalmente ritrovato. Sono auto prodotte su licenza, frutto dell’accordo con la britannica BMC che consente, agli esemplari nati nel nostro Paese, di sottrarsi ai pesanti dazi all’epoca previsti per le vetture straniere. S’inizia con la declinazione nazionale dell’Austin A40, berlina compatta a due volumi con grande portellone posteriore, e con la IM3, versione italiana delle Austin e Morris 1100 (queste con carrozzerie che, oggi, definiremmo a due volumi e mezzo). Ma il successo, per l’Innocenti, arriva nel 1965, con la possibilità di produrre le leggendarie Mini: dai capannoni di Lambrate ne usciranno 437 mila in un decennio, comprendendo nel computo tutte le versioni, dalle ambitissime Cooper alle mini-station Traveller, fino alle pratiche Mini Matic (meno diffuse). Le cose, però, a un certo punto iniziano a prendere una brutta piega. Nei drammatici anni 70 la fabbrica della Innocenti, come altre in Italia, diventa teatro di tensioni sociali così forti da trascendere spesso in violenze: la produzione crolla, la qualità peggiora, le vendite arrancano. È il maggio del ’72 quando viene perfezionata la cessione del pacchetto azionario della Innocenti Autoveicoli alla BLMC, entità sorta dalla fusione tra la BMC e la Leyland. Ma anche il capitolo inglese non dura a lungo: dopo meno di quattro anni deve intervenire lo Stato che, per scongiurare la chiusura, affida l’azienda all’industriale Alejandro De Tomaso. Si apre così il capitolo Maserati: da Lambrate, oltre alle Mini 90 e 120 (disegnate da Marcello Gandini per la Bertone e destinate a restare in produzione fino al ’93, anche con motori della giapponese Daihatsu), arrivano le Biturbo, invenzioni dell'imprenditore italo-argentino destinate a lasciare il segno. Com'è andata a finire, è noto. Dopo il successo iniziale, l'agonia dell’ex fabbrica e della Innocenti (frattanto assorbita dalla Fiat) si trascina per qualche anno, finché, il 31 marzo del 1993, gli ultimi operai lasciano l'impianto. Del quale, oggi, non resta praticamente nulla, salvo le rovine del Palazzo di cristallo, così detto per le sue ampie superfici vetrate, che garantivano una luminosità non comune. Nell'area un tempo occupata dalla fabbrica, infatti, sono stati realizzati un quartiere di abitazioni e un parco. Quanto all'edificio superstite, simile oggi a una serra abbandonata, i piani più recenti prevedono, in virtù di un accordo tra il Comune di Milano e la società Rubattino 87, la trasformazione in una Cittadella del Teatro alla Scala, che vi trasferirebbe i propri laboratori, attualmente ospitati in via Bergognone da un'altra struttura ex industriale. Quella che era dell’Ansaldo.

Pininfarina (San Giorgio Canavese - TO)

La vicenda della Pininfarina è analoga a quella di altre grandi carrozzerie italiane, cadute - per così dire - nella trappola della trasformazione da atelier di artigianato creativo, motivo d’orgoglio nazionale, in costruttore di automobili. Per conto terzi, ché a loro le grandi Case affidavano le produzioni di nicchia, come quelle di spider, coupé e cabriolet, per le quali era troppo costoso allestire linee di assemblaggio specifiche nei propri stabilimenti. Così la Pininfarina iniziò a espandersi, affiancando alle più modeste sedi storiche, regno di disegnatori e battilastra, veri e propri stabilimenti industriali. Quando, però, il metodo delle piattaforme comuni ha permesso alle Case di fare da sé anche per la produzione di modelli dai volumi limitati, le basi del sistema sono venute meno: i carrozzieri hanno via via perso le commesse e si sono trovati con impianti sovradimensionati, destinati a venire abbandonati al loro triste destino. Qualcuno, come la Bertone, non è riuscito a far fronte agli investimenti effettuati ed è finito per scomparire; altri, invece, si sono ridimensionati, tornando a dedicarsi soprattutto al core business originario. È il caso della Pininfarina, che oggi, grazie anche a investitori stranieri (l’indiana Mahindra), costituisce ancora un’eccellenza nel campo del design, pure nautico, e dell’architettura. L’azienda, però, ha dovuto abbandonare alcuni dei propri siti produttivi, come quello di San Giorgio Canavese, a pochi chilometri dall'autostrada A5 fra Torino e Ivrea, che conobbe giorni di gloria negli anni 80, quando definiva orgogliosamente l'impianto una «fabbrica telematica in cui le funzioni di controllo sono affidate a una rete di calcolatori». Del resto, i modelli prodotti erano degni delle migliori tecnologie e della massima cura, trattandosi di gioielli come la Ferrari Testarossa e la Cadillac Allanté, figlia quest'ultima di un assurdo ponte aereo che prevedeva la spedizione delle scocche da Caselle a Detroit a bordo di Boeing 747. L'avventura della Pininfarina in queste contrade si è chiusa nell'autunno del 2011, con l'uscita dalla fabbrica dei pochi lavoratori ancora rimasti. Gli ultimi modelli prodotti, dopo la Peugeot 406 Coupé, sono stati le Alfa Romeo Brera e Spider (che avrebbero forse meritato miglior sorte commerciale) e la Ford Focus CC. Oggi la vendita dell'area è affidata a una società immobiliare, la Ipi di Torino, che al momento della nostra indagine non aveva ancora trovato un compratore.

Pininfarina (Grugliasco - TO)

Un altro sito produttivo abbandonato dalla Pininfarina è quello di Grugliasco, comune indipendente ma integrato con l’area di Torino (confina con Mirafiori Nord e Borgo San Paolo, un tempo sinonimo della Lancia). Dall’impianto, l’azienda se ne andò esattamente il 31 dicembre del 2009, data della sottoscrizione della vendita della struttura, per l’importo di 14,4 milioni di euro, alla Sviluppo Investimenti Territorio, società controllata dalla Regione Piemonte; al tempo stesso, la Pininfarina cedeva l’intero ramo di azienda, con i suoi 900 dipendenti, alla De Tomaso Automobili, diventata col tempo proprietà di Gian Mario Rossignolo, manager piemontese con un passato alla Fiat (dove si era scontrato con Carlo De Benedetti, durante la breve permanenza di quest’ultimo alla corte della famiglia Agnelli) e in numerose altre aziende, tra le quali Telecom Italia. Oggi, sullo stabile di quello che era il centro ricerche Pininfarina, inaugurato nel '66, campeggia ancora l'insegna della De Tomaso, ma di auto, qui, non ne sono state mai più prodotte. Ottenuta l'area in affitto dalla Regione per una cifra quasi simbolica (650 mila euro l'anno), nonostante i roboanti programmi (che parlavano di un target di ben 8.000 vetture l'anno), Rossignolo non vi ha mai costruito nulla. Anzi, l’imprenditore finì per essere arrestato nel luglio del 2012 per «truffa aggravata al fine del conseguimento di fondi pubblici» (7,5 milioni di euro ministeriali destinati a corsi di riqualificazione del personale mai effettuati). Il processo (che ha riguardato anche il figlio Gian Luca) si è concluso nel 2019, con una condanna a oltre cinque anni di detenzione (pena poi ridotta in appello, per la prescrizione di alcuni reati). La storia dell’impianto di Grugliasco, a differenza di altre, ha però un lieto fine. Lo stabilimento (che interessa un’area di oltre 64 mila metri quadrati) è stato infatti ceduto per 3,4 milioni di euro dalla Finpiemonte Partecipazioni, che ne aveva assunta la titolarità, a tre nuove aziende: la Febametal (utensili di precisione), la Leva (componentistica auto) e la Sargomma. Quest’ultima, fornitrice tra l’altro di FCA e New Holland, è guidata da Brigitte Sardo, manager illuminata che intende dare vita a un progetto particolarmente attento al welfare aziendale. Terminati i lavori di bonifica e ristrutturazione, il nuovo insediamento porterà, secondo le previsioni, alla creazione di oltre 300 nuovi posti di lavoro.

Osi (Torino)

Una cosa del genere non te l'aspetti, nel cuore di Torino, a due passi dall'ospedale Umberto I e dalla stazione di Porta Nuova. Eppure, è così. E quello che un tempo era lo stabilimento della OSI (Officine Stampaggi Industriali) è oggi un rifugio che accoglie la disperazione di chi non sa dove stare. Si tratta di un'ex area industriale importante, solo parzialmente riqualificata: sull'altro versante della strada, dove un tempo si trovavano prima delle fonderie, poi delle officine della Fiat, infine un'azienda di abbigliamento, è nata una struttura per il co-working, chiamata Toolbox, punto di riferimento per i giovani. Dove c'era l'OSI, invece, solo degrado e abbandono. E dire che, quando era nata nel 1960 per iniziativa di Luigi Segre, già presidente della Ghia, e di Arrigo Olivetti, questa era una bella azienda, per la quale lavoravano stilisti di primissimo piano come Tom Tjaarda (padre, tra l’altro, della Fiat 124 Sport Spider e della De Tomaso Pantera) e Giovanni Michelotti. Fu proprio quest'ultimo a firmare una delle vetture lì prodotte, la Ford Anglia Torino, versione rivista (in meglio, ma ci voleva poco…) dell'originale modello britannico. A essa si aggiungevano realizzazioni per conto terzi, come, per esempio, la Innocenti 950 Spider, la Fiat 1300-1500 Familiare e la brillante coupé 2300 S, e prototipi originali (la Scarabeo, su base dell’Alfa Romeo Giulia, del ’67 e la Silver Fox Bisiluro, destinata ai record di velocità). Messa in crisi anche dalla scomparsa di Segre nel '62, a partire dal '68 l'azienda tornò a occuparsi di stampaggi industriali, rinunciando alla produzione di auto. Ma ogni attività è interamente cessata alla fine degli anni 90: da allora, per la grande area (oltre 50 mila metri quadrati) si sono succeduti diversi progetti di edilizia residenziale, di spazi commerciali, di una nuova sede con annesso campus dello Ied (l'Istituto europeo di design) e di un grande albergo. Ma, finora, nulla si è concretizzato.

Isotta Fraschini (Saronno - VA)

Milanese di nascita, l'Isotta Fraschini negli anni 30 spostò parte delle sue produzioni dalla storica sede di via Monterosa a una vasta area di Saronno, completando poi il trasferimento in seguito ai bombardamenti subiti dalla città durante la Seconda guerra mondiale. Ed è qui che, anche dopo la fine della produzione di auto e la fusione con la Breda Motori, centinaia di persone hanno continuato a lavorare fino al 1990, anno della chiusura definitiva degli impianti. Oggi a Saronno, a pochi passi dalla stazione delle Ferrovie Nord, si trova dunque una gigantesca area dismessa (120 mila metri quadrati, la metà dei quali a verde come si usava all’epoca), dal forte fascino post-industriale, nella quale flora e fauna hanno trovato un habitat ideale per prosperare. Dopo una serie di aste giudiziarie andate deserte, gli spazi, che appartenevano a una società bresciana denominata Galileo, sono stati rilevati dall'imprenditore Giuseppe Gorla, che ha predisposto un articolato progetto di riqualificazione, sottraendoli alla mera speculazione immobiliare (la posizione strategica, tra il centro di Saronno e lo scalo delle Ferrovie Nord, poteva suscitare molti appetiti in questo senso). L’idea, grazie anche alla collaborazione degli ex dipendenti (molto attivi), è ridare peso a un elemento caratterizzante dell’Isotta Fraschini, l’attenzione sempre data alla formazione dei lavoratori e alla loro crescita professionale: il progetto, quindi, prevede la creazione di un polo museale, che consenta di recuperare la storia dell’azienda unendola a quella del tessuto produttivo del territorio su cui insisteva, insieme con la realizzazione di un polo universitario e di una parte residenziale, costruita però assecondando il modello architettonico a corte tipico del contesto lombardo, che prevedeva negli spazi a pian terreno attività di tipo artigianale. Il tutto, senza trascurare la difesa dell’imprescindibile area a parco e bosco. Figure di riferimento dell’iniziativa sono l’urbanista Giancarlo Consonni e l’architetto Cino Zucchi. Di grande rilievo sarà la presenza, nell’ambito universitario, di una nuova sede dell’Accademia delle Belle arti di Brera, che vi terrà percorsi formativi inediti riservati a 1.500-2.000 studenti provenienti da tutti il mondo.

Autobianchi (Desio - MB)

Della storica fabbrica Autobianchi di Desio, sorta nel 1955 dove già la Bianchi aveva una struttura produttiva, oggi non è rimasto nulla: l’area è diventata un grande insediamento residenziale. Nulla, salvo una villa liberty, la Palazzina Cremonini, un tempo attigua allo stabilimento e utilizzata per gli uffici dell'amministratore delegato e dei dirigenti dell'azienda. Diventata interamente della Fiat nel 1968, dopo aver prodotto modelli popolari come la Bianchina, all’avanguardia come la Primula (prima “tutto avanti” del gruppo Fiat) e di successo come l’amatissima A112 e, a metà degli anni 80, l’Y10, l'Autobianchi ha progressivamente rallentato la produzione, fino a cessarla definitivamente nel ’92. Sulla sua ex area industriale sono sorti insediamenti residenziali, compresa un'alta torre di appartamenti, iniziata nel 2007 e mai completata, per il fallimento della società regista dell'operazione. L'enorme edificio abbandonato incombe ora sulla palazzina, a lungo occupata da senzatetto, periodicamente sgomberati dalle forze dell'ordine. Nel tempo, si sono succeduti diversi bandi comunali per la riqualificazione e la gestione dell'edificio, che l'amministrazione locale vorrebbe trasformare in un polo per le attività culturali. Finora, però, l’iniziativa non ha avuto successo, anche per l’ammontare degli importanti investimenti necessari per la riqualificazione dell’edificio.

Alfa Romeo (Arese - MI)

Dell'Alfa Romeo, ad Arese, ormai non resta più molto: il Museo Storico, rimesso completamente a nuovo nel 2015, il Centro Direzionale, firmato dagli architetti Vito e Gustavo Latis, Vittore Ceretti e Antonio Cassi Ramelli, oggi parzialmente utilizzato per uffici, e il vicino Centro Tecnico. Ed è proprio quest'ultimo ad avere suscitato recentemente preoccupazioni nel vasto popolo degli innamorati del marchio, essendo stato svuotato e sigillato, con pannelli di legno apposti brutalmente alla portineria. Il timore, rapidamente diffusosi sui sociali network e tramutatosi in accorati appelli alla salvaguardia di questo luogo caro alla memoria, è che anche questo edificio possa essere prima o poi abbattuto, condividendo la sorte dello stabilimento voluto da Giuseppe Luraghi, diventato un enorme centro commerciale (sorte, peraltro, condivisa con la storica fabbrica del Portello). La questione è stata portata all'attenzione della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Milano, che dovrà esprimersi in merito a un’eventuale tutela dell'edificio. Nel momento in cui scriviamo, l'istruttoria al proposito è ancora in corso e la soprintendente, interpellata da Quattroruote, non ha voluto esprimersi, come da prassi in questi casi. Il palazzo, in ogni caso, vanta caratteristiche architettoniche di pregio: realizzato tra il 1970 e il '74 a completamento dell'area industriale dell'Alfa Romeo, venne progettato dagli architetti Ignazio e Jacopo Gardella e Anna Castelli Ferrieri utilizzando una struttura di cemento armato a vista, integrata da elementi di ferro e di alluminio verniciati e da pannelli di graniglia di cemento. Caratteristiche dell'edificio sono anche le imponenti rampe, che consentivano ai dipendenti di accedere direttamente ai parcheggi. Un building iconico, dunque, che ben rappresenta lo stile architettonico italiano del periodo della sua realizzazione, che sarebbe un delitto lasciare a un amaro destino.