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Ferrari
Un mito per intere generazioni, una delle auto più iconiche di sempre, raccontata attraverso le parole di chi l’ha disegnata. E un viaggio cominciato con una email di complimenti
Dedicato a chi ha avuto una Ferrari F40. La mia, per esempio, era lunga circa una dozzina di centimetri ed era stata prodotta nello stabilimento di Burago di Molgora, vicino a Monza. Non ero più un bambino, anzi, avevo già la patente da un anno, e ricordo che mi dilettai a perfezionarne i dettagli (ben prima che nascessero i detailer...). Altri, tipo il mio direttore, avevano scelto di godere della loro F40 dopo averne appeso un’esemplare in due dimensioni alle pareti della cameretta. E altri ancora, senz’altro, disponevano di abbastanza spazio per ospitarne una di dimensioni reali, con porte e cofani apribili, luci e motore funzionanti e sterzo. Proprio come quella del cavalier Mandelli, imprenditore nel settore macchine industriali del piacentino.
Stregati dalla Rossa. Decisamente, la Ferrari F40 ebbe un impatto devastante nell’immaginario collettivo dei giovani petrolhead dell’epoca (per capirsi, ai tempi non si usava tale esotica definizione, venivamo bollati come dei fissati monomaniaci di macchine). Soltanto ora, dopo decenni, ho realizzato che, forse, una delle ragioni di questa improvvisa, inaspettata seduzione di massa dipendesse dal fatto che l’unica automobile in grado di rivaleggiare con le varie attricette più o meno discinte che popolavano i paginoni centrali di certi giornalini, surclassandole per sex appeal peraltro, era stata disegnata da un quasi coetaneo ragazzo di ventinove anni, tale Camardella Pietro da Salerno, Piero per gli amici.
Galeotta fu una email. Quel ragazzo ora è seduto di fianco, sul sedile del passeggero e mi sta raccontando dettagliatamente vita, morte e miracoli di tutti coloro che, a vario titolo, frequentavano gli uffici della Pininfarina nella metà degli anni 80. Ho caricato Pietro a Rozzano, Editoriale Domus si capisce, e insieme stiamo andando a Cividale del Friuli, praticamente dall’altra parte dell’Italia del Nord, per incontrare Francesco, il farmacista di Torreano, che qualche mese prima aveva inviato una bella email all’indirizzo del mio boss: “Buonasera Direttore, Le scrivo per congratularmi circa le qualità del suo periodico. È, a mio avviso, unico nel suo genere. Una sorta di manifesto alla bellezza del prodotto Made in Italy”. Capirete bene che di lettere d’amore incondizionato come queste ne riceviamo a pacchi in redazione (a proposito, grazie), ma questa, nelle ultime righe, riportava qualcosa di diverso: “... poi accadde che mi imbattessi in una F40”, ammette il nostro. “Ne fui folgorato”, scrive, “era una delle prime (telaio numero 19), non catalizzata... ne produssero soltanto 32, con i retronebbia nella griglia, finestrini scorrevoli in lexan, cinture a quattro punti”. Wow, dico, sono friulano anche io e conosco bene l’integerrima concretezza dei miei conterranei: com’è possibile che uno di questi si sia lasciato sedurre da simili mollezze? Scherzo. E comunque, la bomba doveva ancora sganciarla: “Apprezzando le sensibilità dimostrate da AutoItaliana verso le icone del motorismo italiano, sono a mettere a disposizione questa vettura, laddove fosse di Suo interesse, per un servizio fotografico e un approfondimento su quella che resta l’ultima Ferrari costruita e voluta dal Commendatore”. Boom!
“Era una delle prime (telaio numero 19), non catalizzata... ne produssero soltanto 32, il primo bozzetto presentava già il lunotto di plexiglass alettato ispirato alla Miura, che rispondeva alla richiesta della Ferrari di avere il motore a vista con i retronebbia nella griglia, finestrini scorrevoli in lexan, cinture a quattro punti”
La genesi del mito.Il bello di viaggiare con Pietro Camardella è che non serve tempestarlo di domande: basta premere il tasto play e ascoltare l’audiolibro (è un’idea Piero, dovremmo seriamente pensarci). È più che sufficiente una curiosità piccola piccola, tipo “come sei diventato car designer?” per far partire un racconto che non si estende tanto nel tempo, ma che si ramifica in innumerevoli microstorie a loro volta piene di dettagli, aneddoti, confidenze: “Oh, questa, mi raccomando, non la scrivere”, fa prima di svelarmi qualche retroscena di bottega. Brevemente ‒ la racconto perché merita ‒ Camardella arriva a Cambiano con il corredo di belle speranze d’ordinanza e un pacco di disegni sottobraccio da sottoporre ad Aldo Brovarone, che li esamina, li studia, li giudica prima di rispedire Pietro a casa col compito di farne altri: più colorati, meno colorati, più grandi, così, ma non troppo... insomma, lo fa tornare tre, quattro volte prima di convincersi delle qualità del candidato. Alla fine, il giovane Pietrino viene assunto, sì, ma che fatica!
“Il logo F40 impresso in bassofondo sul supporto dell’alettone lo suggerii come citazione alla Brionvega FD 1102 disegnata da Marco Zanuso”
“Il giorno in cui in Pininfarina arrivò la commessa per una nuova vettura sportiva era uno dei tanti”, esordisce Camardella prima di riavvolgere il nastro dei ricordi: “L’incarico era un po’ una rogna, perché dovevamo dare una forma a uno "scarrafone", un muletto da officina, per intenderci, mantenendo inalterata la cellula centrale e questo lo rendeva un lavoro estremamente vincolante, un fastidio. Fatto sta che in ufficio in quel periodo eravamo solo in cinque: un collega stava facendo il servizio militare, un altro era dimissionario, un altro ancora non mi ricordo, insomma. Alla fine, la direzione decise che il progetto l’avrei seguito io, della serie "lo faccia fare a Camardella che gli vengono bene, Brovarone lei dia un’occhiata". Il tema era stuzzicante e Brovarone, che era sempre stato particolarmente prolifico nel disegnare, si cimentò comunque volentieri”. Il compito era di portare su strada una vettura da competizione e di tenere come riferimento le sport prototipo, cioè le auto da corsa più simili a quelle stradali. Sebbene da un lato mantenere tutto il corpo abitacolo della 288 GTO rappresentava il vincolo maggiore, dall’altro la dispensa dall’obbligo di soddisfare alcune normative di legge, visto il basso numero di esemplari da produrre e omologare, si traduceva nella libertà di mettere su strada una concept car.
“Un’occasione d’oro per me, dopo nemmeno un anno di lavoro in Pininfarina”, chiosa Camardella, proseguendo senza interruzioni: “Così, con grande entusiasmo, realizzai il primo bozzetto, con gli sfoghi d’aria a branchie, i fanalini posteriori rigorosamente circolari, abbinati e schermati da un grigliato tipo Testarossa (eliminato poi nella soluzione finale). La mia esuberanza giovanile mi spinse a disegnare due spoiler intrecciati in coda. Come lo vide, Leonardo Fioravanti (allora amministratore delegato, direttore e socio del Centro Studi e Ricerche Pininfarina di Cambiano) mi apostrofò con il suo accento milanese: "Benedetto ragazzo! Ma dove crede di essere, a Daytona?". Questo primo bozzetto, però”, continua Camardella, “presentava già il lunotto di plexiglass alettato ispirato alla Miura, che proposi per rispondere alla richiesta della Ferrari di avere il motore a vista. Mi ispirai alla Miura ‒ in quel periodo adoravo le Lamborghini ‒ anche per la soluzione del cofano anteriore, che risolveva il gap con la cellula centrale, e la proposta si estendeva anche al cofano posteriore, incernierato all’estremità, ma alla Ferrari preferirono una soluzione di apertura che effettivamente garantisse una migliore accessibilità al motore”.
“L’obiettivo era sviluppare una vettura ad altissima deportanza, sacrificando in parte il coefficiente di penetrazione aerodinamica”
Le intuizioni vincenti. “In generale, mi riferii allo spirito della 250 GTO per eccellenza, quella del 1962, più che alla 250 Le Mans del 1963”, spiega Camardella, “interpretando in chiave evolutiva e aggiornata il carattere sportivo e lo spirito del marchio. Sul frontale riportai il trittico di prese d’aria e proposi una soluzione attualizzata dei fari a vista carenati dal plexiglass, che per problematiche di realizzazione e omologazione divennero luci di posizione e direzione, aggiungendo poi le funzioni principali a scomparsa. Provai anche varie soluzioni di sfoghi d’aria latero-posteriori che ricordassero la GTO ’62, ma alla fine furono preferite le branchie del primo bozzetto, mentre si persero gli sfoghi d’aria, sempre a branchie, sui finestrini laterali. Nemmeno sulla fiancata riuscii ad allineare le prese d’aria, in quanto eravamo vincolati dalle portiere esistenti, dal profilo stondato, che poi alla fine vennero comunque cambiate con quelle più squadrate”.
“Quel piccolo lip anteriore risolse il problema, creando una downforce di oltre 300 kg in condizioni dinamiche estreme e bilanciando perfettamente la deportanza del retrotreno”
Un percorso inusuale. Per mancanza di tempo e di risorse, non venne realizzato il cosiddetto piano di forma, cioè il gruppo di disegni tecnici che raffigurano le quattro viste prospettiche dell’automobile. Dopotutto, la Ferrari aveva messo a disposizione della Pininfarina il rolling chassis completo del corpo vettura centrale, sul quale vennero abbozzate direttamente le masse frontali e posteriori, che a loro volta furono poi plasmate sulla base dei bozzetti. “Questo processo inusuale”, racconta il car designer salernitano, “determinò a corollario alcuni aneddoti. Il responsabile dei modelli, l’altoaltesino Luciano Del Bel Belluz, senza disegni di forma geometrici e disponendo solo dei miei bozzetti sciolti, mi marcava stretto per ottenere informazioni direttamente sulla maquette. È passata alla storia la sua tipica espressione: "Quanta millimeter?", quanti millimetri? Una volta mi trattenne letteralmente per il maglione affinché gli dessi indicazioni sull’andamento di pianta del frontale: gli dovetti tracciare direttamente per terra, sul plateau di riscontro, il profilo spezzato che continuava idealmente il parafango accennato sul cofano”.
Con lo stesso procedimento, in galleria del vento fu messa parallelamente in verifica l’aerodinamica: stabilità di marcia e aderenza al suolo costituivano i requisiti prioritari, relegando il Cx a un ruolo di secondario. In altri termini, l’obiettivo era di sviluppare una vettura ad altissima deportanza, sacrificando in parte il coefficiente di penetrazione aerodinamica e soddisfando la necessità di assicurare consistenti flussi interni per il raffreddamento. “A curare l’ottimizzazione aerodinamica fu l’ingegner Mario Vernacchia, da cui vennero importanti suggerimenti sia per la messa a punto della forma sia per l’invenzione della "lama nera" (lip) anteriore, che salvò il disegno pulito del frontale”, dice Camardella. Quel piccolo labbro anteriore risolse il problema, creando una downforce di oltre 300 kg in condizioni dinamiche estreme, e bilanciando perfettamente la deportanza del retrotreno.
“Con Vernacchia, che oggi ha uno studio di design indipendente, c’era vera collaborazione nonostante fosse anch’egli uno stilista, e dunque potenzialmente in competizione. Era leale: quando prendeva in carico lo sviluppo aerodinamico di un progetto di altri, il suo atteggiamento era di confrontarsi con l’autore. Questo, nel tempo, ha generato anche un buon rapporto d’amicizia tra di noi. La sua collaborazione era preziosissima. E nonostante di base fosse un ingegnere, la sua innata sensibilità estetica lo portava a cercare la soluzione aerodinamica migliore per salvaguardare lo stile. Insieme si faceva squadra”, ricorda il mio passeggero.
Miniera di aneddoti. Intanto, a Pietro Camardella vengono in mente altri aneddoti di quel periodo, di quel lavoro: “Un giorno, la dirigenza della Pininfarina decise di proporre il filo superiore del cofano anteriore asimmetrico, per coprire la monospazzola del tergicristallo: per fortuna, alla fine hanno cambiato idea”, sospira. “E questa”, sostiene il nostro, “non è l’unica retromarcia: ce n’è una che riguarda il nome che avrebbe dovuto essere F40 Le Mans, come inizialmente avrebbe desiderato Enzo Ferrari. Poi, forse su richiesta della Fiat, che intendeva sì sottolineare il quarantenario, ma allo stesso tempo tagliare con il passato, il suffisso Le Mans venne eliminato. E infatti, la tavola in cui l’abbinavo alla 250 LM del 1963, che avevo preparato per la presentazione al Salone di Francoforte del 1987, non venne più utilizzata: la regalai a un amico, trattandosi ormai di un’illustrazione ritenuta inutilizzabile”. Pietro, che ha praticamente parlato per sei ore in un viaggio che ne durava quattro, in una delle innumerevoli digressioni mi svela di essere un collezionista di oggetti di industrial design: “Beh, sai, il logo F40 impresso in bassofondo sul supporto dell’alettone lo suggerii come citazione alla Brionvega FD 1102 disegnata da Marco Zanuso. E scusa se è poco!”.
Tratto da Autoitaliana n° 9
Autunno 2021
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