Nel 1973, l'invenzione di Faggin ha già un paio d'anni, eppure il mondo non è ancora pronto per fare il salto nel futuro. Il presidente degli Stati Uniti è un Richard Nixon ormai consapevole di passare alla storia per lo scandalo del Watergate, la guerra del Vietnam continua a dividere il pianeta, Mike Bongiorno presenta Sanremo ed Elvis Presley canta in diretta via satellite. Eppure, questi anni tecnologici sono ancora anni caldi. A Roma rapiscono il nipote di Getty, a Belfast scoppiano le bombe e in Grecia un golpista diventa presidente. Come se non bastasse, in Israele scoppia la Guerra del Kippur, con crisi petrolifera annessa. E gli italiani imparano una nuova parola: austerity. Ovvero, targhe alterne e pedalare. Morale: la rivoluzione digitale è costretta a cominciare in sordina. Si parte con gli strumenti da ufficio, poi con i macchinari delle fabbriche. Per arrivare, infine, alle auto in garage.

Federico Faggin

Una vita per la ricerca. Nato a Vicenza nel 1941, Federico Faggin è laureato in fisica. Nel 1968 si trasferisce negli Stati Uniti, dove lavora per diverse aziende della Silicon Valley, tra cui Intel, per la quale inventa il primo chip della storia. In seguito diventa imprenditore, fondando la Zilog. Da sempre impegnato nella ricerca, ha ricevuto numerose onorificenze, tra cui quella di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, che gli ha assegnato il presidente Sergio Mattarella.

Q 800: l'intervista a Michele Faggin

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Da un momento all'altro, il mondo fa clic. E l'era analogica comincia a diventare sempre più digitale. Qual è stata la genesi di questo cambio di costume?
Il digitale nasce da un bisogno. Quello di semplificare e cominciare a ragionare solo con due stati come 0-1, vero e falso… Il simbolo digitale è molto più facile da riconoscere, oltre a essere più resistente al rumore. Alle interferenze, insomma. Basta pensare ai vecchi telefoni che gracchiavano. È grazie a questa intuizione che un po' alla volta si cominciano a integrare tutte le forme di comunicazione: visiva, uditiva, fotografica, senza conversioni che alterino ulteriormente il rapporto segnale-disturbo. Ecco come si arriva all'iPhone. Dove tutte queste comunicazioni finiscono in un unico strumento.

Tra la fine degli anni 70 e i primi 80, l'elettronica entra nelle automobili. Che cosa ha spinto questo passaggio?
La stessa ragione che l'ha spinta nelle macchine nell'industria: la necessità di un maggior controllo, di una precisione superiore. Grazie a questi nuovi sensori, è stato possibile regolare con maggior puntualità anche i processi termici e meccanici dell'auto. A vantaggio di confort ed efficienza, abbattendo i costi di produzione. Insomma, il digitale ha permesso di fare tutte quelle cose che meccanicamente non si potevano più fare. Fino ad allora, molti meccanismi sopperivano alla capacità di fare un information processing adeguato. Ma a un certo punto queste cose sono state soppiantate dall'elettronica: l'unica alternativa per andare al di là di quello che risolvere. Poteva succedere vent'anni prima come vent'anni dopo, ma sarebbe successo in ogni caso. Ormai la strada era quella tracciata dalla scienza e dalle tecnologie esistenti. Alcune volte fatti politici, economici o situazioni globali, come il Covid, accelerano i processi, com'è successo con lo smart working in Italia, per esempio. Prima nessuno si poneva il problema del lavorare da casa, ma quando è diventato indispensabile ne abbiamo capito il valore. Anche i datori di lavoro si sono resi conto di come gli impiegati possano operare da remoto senza perdere in produttività. Così si è innescato un meccanismo che altrimenti avrebbe richiesto altri vent'anni.

Quali sono, secondo lei, le automobili simbolo di questa transizione?
Non sono un cultore dell'auto, quindi guardo questo mondo da una prospettiva esterna: la verità è che mi è sembrato un processo graduale, fatto di piccole innovazioni. Ma francamente sono rimasto sorpreso che ci sia voluto così tanto per cambiare il prodotto auto. Se penso alle calcolatrici da tavolo, prima meccaniche e quindi elettromeccaniche: appena è stato raggiunto un certo livello di costi e prestazioni, in due anni erano già tutte elettroniche. È evidente che l'auto ha inerzie molto diverse. La vera svolta è stata la Tesla. Vederla senza carrozzeria mi ha entusiasmato: avevo davanti un gioiello della semplificazione. E per di più totalmente elettrico (motore compreso). È allora che mi sono detto: questo è il futuro. Un progetto partito da un foglio bianco, di fronte al quale si sono detti «vogliamo un'auto interamente elettrica» e quindi si sono chiesti «come la facciamo?». Ecco cos'è la Tesla: Musk ha insegnato al mondo come si fa una vettura elettrica da zero, senza voler appioppare a tutti i costi un motore elettrico a una macchina fatta con una concezione elettromeccanica.

Fatti politici, economici o situazioni globali, come il Covid, a volte accelerano i processi, com'è successo con lo smart working, per esempio

L'elettronica all'epoca diventa familiare a tutti, dal walkman alla tv: ci siamo abituati a consumarla, senza ripararla. Strategia o scelta industriale?
I circuiti integrati di oggi non sono riparabili, perché monolitici. Se uno volesse collegare più transistori insieme, questa stanza non basterebbe a mettere insieme tutti quelli che servono in un microprocessore, visto che per quelli più avanzati ci vogliono addirittura 50 miliardi di transistori… Quello che costa di più, dal punto di vista del volume, sono proprio i collegamenti. Per questo si è preferito integrarli. E così, se non funziona qualcosa, si butta tutto, perché non abbiamo la conoscenza necessaria per individuare quale di questi 50 miliardi non funziona a dovere. Ci vorrebbe troppo tempo per capire dove mettere le mani, visto che stiamo parlando di una complessità al di là dell'immaginabile. La chiavetta Usb da 1 TB che usiamo per condividere i file ha 4 trilioni di transistori su un solo chip. Una volta, per fare quel terabyte di dati, sarebbe stato necessario un grattacielo. Ora possiamo tenercelo in tasca.

Oggi i chip dominano la scena per la loro carenza: come usciremo da questa crisi?
Purtroppo non è una questione di rinuncia, né di semplificazione. Bisogna solo avere la pazienza di aspettare che ci si riprenda da questo problema. Amplificato dalla fabbrica in Giappone che faceva quasi tutti i chip per le auto e che è andata a fuoco. Un disastro che ha tolto dalla supply chain un nodo molto importante. Per non parlare del periodo della pandemia, in cui la domanda è scesa moltissimo, costringendo numerosi produttori a chiudere alcune fabbriche. Per questo la ripresa è stata assai più lenta del previsto. Ci si è accorti che quella razionalizzazione del mercato è costata cara soltanto quando la domanda è tornata a crescere. Ma penso che tutto dovrebbe risolversi nel giro di un paio di anni.

Nel 1998, lei profetizzava su Quattroruote la diffusione del Gps in tutte le auto entro il 2008: così è stato. Scriveva anche che la guida autonoma sarebbe stata determinante per la sicurezza, a fronte di un enorme sforzo economico. Come vede, ai giorni nostri, questa opportunità?
Diciamo che è ancora una promessa. Per ora, la tecnologia che abbiamo permetterebbe di arrivarci ancora molto in ritardo rispetto alle previsioni troppo ottimistiche di quelli che sanno. In realtà, noi guidiamo già in modo automatico per la maggior parte del tempo, il nostro ruolo al volante è quello di supervisionare. Tener d'occhio la strada e intervenire solo quando diventa necessario, specie in situazioni intricate come nel caos delle città. Proprio dove va in crisi la guida autonoma. L'autostrada, si sa, è un ambiente meno complesso. Del resto, per come la vedo io, la guida autonoma o si guida completamente da sé oppure no. Perché solo quando l'auto si autoguiderà, potremo ristrutturarne l'interno: è solo allora che l'abitacolo potrà trasformarsi in un ufficio semovente o in un salottino. E così ci si potrà concentrare su altre cose e non più sulla guida. Ma c'è di più: la macchina che si guida da sé può risolvere tutte le situazioni pratiche e cambierà completamente l'ecosistema della mobilità. Mi spiego. Un domani, quando deciderò di partire, mi basterà telefonare all'auto e dopo due secondi sarà sotto casa mia, perché ce ne saranno sempre in circolazione. Sarà tutto più facile, altro che scendere in garage per prendere la macchina e dover cercare il parcheggio una volta arrivati… L'auto automatica arriverà perché lo sforzo fatto per arrivarci da giganti come Google e Apple è enorme. E siccome hanno capito che questa sarà una rivoluzione importantissima, continueranno a investirci. Ma ci vorranno almeno quindici-vent'anni prima di avere l'auto che si guida completamente da sola. Il futuro sarà così perché il computer guida meglio di noi? No, ma perché le macchine, quando funzionano, funzionano sempre. Non si distraggono, non bevono, non si drogano. Insomma, non diventano improvvisamente cattivi guidatori, come invece facciamo noi. Morale, nella media, le macchine a guida autonoma causeranno molti meno incidenti.

Le auto saranno autonome perché il computer guida meglio di noi? No, ma perché le macchine, quando funzionano, funzionano sempre

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