Negli italiani ha lasciato un ricordo indelebile, a distanza di tanti anni: del resto, Jean Todt è stato il capitano del dream team Ferrari durante il dominio delle Rosse e di Michael Schumacher. Gli anni 80, invece, per Todt sono all'insegna della Peugeot. Messosi alle spalle un passato di valente navigatore nei rally, inizia la sua carriera di manager prendendo il timone del team francese nell'81 e portandolo al vertice della categoria. Sotto la sua guida, la Peugeot Sport vince nell'84 e nell'85 i titoli mondiali rally Costruttori e Piloti (con Timo Salonen e Juha Kankkunen). Le tragedie che colpiscono il mondo delle corse su strada negli anni successivi portano al bando delle Gruppo B, ma Todt riesce a fare un uso vincente delle 205 T16, trasformandole in auto da rallyraid e portandole al successo nelle Parigi-Dakar dell'87 e dell'88 con Vatanen e Kankkunen. In quel periodo, le competizioni sono molto pericolose anche in pista (nel 1982, Gilles Villeneuve perde la vita a Zolder). Non a caso, quindi, Todt sviluppa una particolare attenzione per la sicurezza delle auto e, soprattutto, dei piloti, che lascia un'impronta sulla sua carriera successiva, dagli anni della presidenza della Fia (2009-2021) ai giorni nostri, in cui ricopre il ruolo d'inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per la sicurezza stradale, affidatogli dal precedente segretario Ban Ki-moon e rinnovatogli da António Guterres. Veste nella quale lo incontriamo nel suo ufficio Onu a Ginevra.

Jean Todt

Dalle corse alla medicina. Originario di una località dell'Alvernia, 76 anni, Jean Todt, dopo le esperienze da copilota nei rally, ha guidato la Peugeot Sport dal 1981 al '93, portandola al successo nel Mondiale rally, alla Dakar e a Le Mans. Chiamato poi da Luca Cordero di Montezemolo alla Ferrari, la condurrà alla conquista di cinque titoli Piloti e sei Costruttori tra il 1999 e il 2004, prima di ricoprire il ruolo di ceo dell'azienda dal 2006 al 2009, anno in cui viene eletto presidente della Fia, carica mantenuta fino al dicembre 2021. Ha anche fondato, a Parigi, l'Istituto del cervello e del midollo spinale.

Q 800: l'intervista a Jean Todt

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La seconda metà degli anni 80 fu tragica per i rally: nell'85 e nell'86, Attilio Bettega, Henri Toivonen e Sergio Cresto persero la vita al Tour de Corse, con le Lancia 037 e Delta S4. Fu un periodo particolarmente pericoloso per le competizioni?
Il mondo delle corse è sempre stato pericoloso e lo è ancora oggi, ma con il tempo sono stati fatti progressi enormi a livello di circuiti, macchine, caschi, tute, abbigliamento dei piloti e dei meccanici nei pit stop. C'è un limite di velocità nella pit lane delle piste e, se lo si supera, si viene multati o penalizzati; i controlli sono severi, come vorremmo che fossero pure sulle strade. Da quegli anni, anche nei rally sono stati compiuti progressi enormi, per esempio nelle strutture di protezione frontali e laterali delle vetture e nell'abbigliamento dei piloti; pure nei rallyraid come la Dakar, quando i concorrenti arrivano in un villaggio o in una città, devono rispettare rigorosamente i limiti di velocità, altrimenti sono penalizzati e, in caso di recidiva, squalificati. Tutto questo è molto positivo, ma la sicurezza ha sempre fatto parte della cultura dell'organismo di regolazione del motorsport, anche con i miei predecessori. Basti pensare che ai tempi di Fangio i piloti correvano con una maglietta e senza cinture di sicurezza...

Quello che successe negli anni 80 fu una presa di coscienza che portò all'abolizione delle vetture di Gruppo B?
Penso che la decisione di vietarle all'improvviso fu un errore. Oggi abbiamo auto da rally che vanno più forte di quelle di allora: bisognava prendere delle misure per adattare le Gruppo B e risolverne alcuni difetti, ma il problema non era la loro velocità. Dopo il terribile incidente di Le Mans del 1955, la Svizzera vietò le corse in pista e questa norma è ancora oggi in vigore, però bisognerebbe capire perché così spesso la gente si sveglia soltanto dopo un tragico avvenimento, sull'onda dell'emotività. L'importante, invece, è imparare da quello che è successo e anticipare quello che potrebbe succedere. Venendo a tempi più recenti, prendiamo il caso dell'Halo, che ho imposto sulle vetture a ruote scoperte: c'erano stati gli incidenti di Felipe Massa (colpito al casco da una molla nelle prove del GP di Ungheria del 2009, ndr), di Jules Bianchi (morto dopo più di nove mesi di coma in seguito all'incidente subito nel GP del Giappone del 2014, ndr) e di Henry Surtees (figlio del grande John, deceduto nel 2009 in una gara di F.2 perché colpito da un pneumatico staccatosi da un’altra vettura, ndr) e tutto questo ci ha fatto comprendere quanto fosse vulnerabile la testa dei piloti delle monoposto. Nonostante la diffusa insoddisfazione e le critiche iniziali, abbiamo imposto l'Halo, che ha salvato almeno due vite, quella di Romain Grosjean e quella di Lewis Hamilton nell’incidente di Monza dell’anno scorso. Ci si rende conto a posteriori di aver fatto bene a insistere: ogni incidente deve consentire d'introdurre un miglioramento. La scomparsa di Senna e Ratzenberger ci ha indotti a prendere le misure necessarie per evitare che elementi delle vetture possano staccarsi. Però bisogna anche imparare a pensare a come evitare gli incidenti ancora prima che accadano.

Ci si rende conto a posteriori di aver fatto bene a insistere: ogni incidente deve consentire d'introdurre un miglioramento

Durante la sua presidenza della Fia ha avuto sempre a cuore la sicurezza dei piloti, ma anche dei normali automobilisti e oggi è inviato speciale del segretario generale dell’Onu con la missione di ridurre il numero di vittime degli incidenti stradali. In che cosa esattamente consiste questo suo incarico?
Il mio ruolo è lavorare con i governi per assicurarci che ognuno di essi – in particolare, quelli dei Paesi in via di sviluppo – consideri la sicurezza stradale una priorità assoluta. Bisogna tenere conto del fatto che, ogni anno, a causa degli incidenti muoiono 1,4 milioni di persone sulle strade e ne restano ferite oltre 50 milioni. La sicurezza fa parte degli obiettivi dello sviluppo sostenibile, che vogliono dimezzare entro il 2030 il numero delle vittime e dare accesso al trasporto pubblico a tutti i cittadini del mondo. Dobbiamo inoltre chiedere l'applicazione delle regole internazionali: lavoriamo con i governi, ma pure con i colleghi delle agenzie dell'Onu, con la Banca Mondiale e con quelle regionali, per sviluppare il fondo creato quattro anni fa dalle Nazioni Unite, anche per promuovere il casco speciale che è stato sviluppato dalla Fia.

Parliamo allora di questo casco...
Si tratta di un casco dal costo molto basso, inferiore ai 20 dollari, ma regolarmente omologato, sviluppato dal Safety department della Fia con le Nazioni Unite; grazie ai fori d'aerazione, è ideale soprattutto per i Paesi molto caldi, dove spesso i conduttori dei mezzi a due ruote non usano i caschi oppure impiegano dei caschi realizzati con materiali fragili come il vetro. È in vendita, ma dobbiamo trovare abbastanza produttori e acquirenti per ottenere buoni risultati sul piano della sicurezza.

Che cosa si può fare per migliorare la sicurezza nei Paesi in via di sviluppo?
Quello per cui ci battiamo sono standard minimi di sicurezza che siano validi ovunque. Se si compra un'auto da 10 mila euro in Italia oppure in Colombia, Nepal o Nigeria, l'aspetto può essere lo stesso, ma le dotazioni di sicurezza spesso non lo sono. Per esempio, l'Esp è obbligatorio in Europa, ma non in quei Paesi. Dei miei compiti fa parte anche persuadere i governi e le case costruttrici a evitare queste differenze. Non solo: spesso le auto con più di dieci anni non più utilizzate in Italia, Francia, Germania o Svizzera sono mandate in Africa, Asia e Sudamerica. Ho appena incontrato i ministri dei Trasporti della Guyana e dello Zimbabwe, per chiedere loro d'impedire l'importazione di vetture dai mercati più sviluppati senza un minimo di controlli sulla loro sicurezza.

Ci sono altre aree del mondo in cui si potrebbero ottenere progressi sul piano della sicurezza stradale?
Il Nordamerica non è in una buona situazione, da questo punto di vista: gli Stati Uniti, con circa 320 milioni di abitanti, hanno oltre 40 mila morti l’anno per incidenti, un numero enorme. Paesi come la Francia e l’Italia hanno fatto ciò che dovevano: possono ancora migliorare, ma i risultati si vedono, così come in Australia, Nuova Zelanda, Canada, Giappone e Corea del Sud. Tra i Paesi più sviluppati, invece, gli Usa non hanno svolto un buon lavoro: ci sono Stati in cui il casco per i motociclisti non è ancora obbligatorio. Hanno mezzi e organizzazioni, ma i risultati sono modesti. Tuttavia, se nei Paesi in via di sviluppo riuscissimo a ottenere l’80% di quello che è stato raggiunto in quelli sviluppati, avremmo benefici enormi, dimezzando il numero attuale delle vittime: per questo, è assolutamente indispensabile uno sforzo in quelle aree.

L’esperienza delle competizioni ha portato benefici anche alla sicurezza delle auto stradali?
Le corse hanno contributo in maniera importante all'evoluzione delle auto: basti pensare ai freni a disco, all'Esp, ai fari molto più efficaci. Hanno inoltre consentito miglioramenti alla propulsione ibrida, che tanti contestavano quando è stata introdotta in F.1 nel 2014 e che, invece, ha permesso di avere monoposto efficienti e veloci; ci hanno anche dato la possibilità di sviluppare la Formula E, che all'inizio richiedeva due vetture per una gara di 45 minuti e ora non più, permettendoci di far capire quanto le elettriche possano essere valide in città. Tutti questi progressi, pur tenendo conto delle missioni diverse, hanno avuto riflessi positivi sulle auto stradali, oggi molto più sicure rispetto a 40 anni fa. Ma sono benefici di cui si deve poter godere in tutto il mondo.

Tutti questi progressi, pur tenendo conto delle missioni diverse, hanno avuto riflessi positivi sulle auto stradali, oggi molto più sicure rispetto a 40 anni fa

A proposito di corse: la Ferrari ha compiuto 75 anni il 12 marzo. Che ricordi ha del suo periodo a Maranello?
Sono arrivato alla Ferrari il 1° luglio del 1993 e ho trovato una Gestione sportiva in una situazione di grande pericolo ed è per questo che Luca Cordero di Montezemolo mi volle, con il supporto dell’avvocato Agnelli e del dottor Romiti, perché non era una decisione facile affidarsi a un francese che non aveva nessuna esperienza di Formula 1, basandosi sui successi ottenuti con la Peugeot nei rally, nei rallyraid e nel Campionato mondiale Sport-Prototipi. Trovai una situazione non bella: ho dovuto ristrutturare l’organizzazione, riportare tutto a Maranello, far lavorare bene la gente insieme, essere ambizioso nella scelta delle persone da assumere. Due anni dopo, siamo stati pronti per accogliere il miglior pilota dell’epoca e ancora non è stato abbastanza. Michael Schumacher arrivò nel 1996, nel ’97 perdemmo il titolo all’ultima gara, nel ’98 pure, nel ’99 ancora con Irvine, ma vincemmo finalmente il titolo Costruttori. Da lì abbiamo aperto un ciclo vincente, in cui per qualche anno la Ferrari e Michael sono stati imbattibili: è dunque ovvio che questo mi ha lasciato ricordi fantastici, ma sono stati anche anni difficili, perché rammento più le difficoltà dei successi. Le difficoltà ci hanno reso più forti e sono molto orgoglioso di vedere l’affetto che ancora esiste nei miei confronti in Italia. La Ferrari e l’Italia mi hanno consentito di scrivere veramente una pagina importante della storia dell’automobilismo, di cui la gente ancora si ricorda, nonostante abbia lasciato Maranello nel lontano 2009. E, probabilmente, questo ricordo è così forte perché, da allora, questo successo incredibile non si è più ripetuto: non solo da quando me ne sono andato via io, ma da quando un certo numero di persone ha lasciato la Ferrari.

C’è qualcosa di particolare del suo passato che ama ricordare?
Sto scrivendo un libro, che dovrebbe essere pubblicato a dine anno, un’autobiografia con alcuni temi che mi sono cari, accompagnata da un documentario. In ogni capitolo ci sono ricordi particolari. Se penso al mio periodo da copilota, quello che mi è rimasto più vivo riguarda la Vuelta America del Sud del 1978, un percorso di 30 mila chilometri in 30 giorni, fatto a fianco di Timo Mäkinen su una Mercedes (la Casa tedesca occupò le prime cinque posizioni in classifica e Todt fu quarto all’arrivo su una 450 SLC, ndr). All’epoca, il capo della Mercedes in Argentina era Fangio, quindi trascorremmo tutto quel periodo insieme e questo fu per me assolutamente affascinante. Poi, ricordo in particolare, una volta diventato il responsabile dello sport per la Peugeot, la prima vittoria al Rally dei 1.000 Laghi del 1984 con Vatanen: mi dissi che avevamo trionfato in almeno una gara, invece poi abbiamo vinto tutto, i titoli Piloti e Costruttori dell’85 e dell’86. Poi siamo passati ai rallyraid e abbiamo vinto tutto anche lì. Del periodo alla Ferrari, il ricordo più bello è quello della vittoria di Michael a Suzuka nel 2000, che ha riportato a Maranello un titolo Piloti che aspettava da 21 anni. Quanto al mio ruolo di amministratore delegato, per un appassionato di auto come me gestire l’azienda che produce quelle più belle al mondo era qualcosa che non avrei mai pensato di poter fare. Oggi sento la voglia di restituire qualcosa di quanto ho avuto nella mia vita con l’impegno prima nella Fia, ora nelle Nazioni Unite e con la creazione di un istituto di ricerca medica sul cervello e il midollo spinale a Parigi, dove operano più di 700 ricercatori. Questa, per me, è una cosa molto importante, insieme con una fondazione in Birmania della quale mi occupo con mia moglie Michelle Yeoh. Dopo aver vissuto in un modo, in un certo senso, “egoista”, cercando soprattutto il successo mio e delle mie squadre, oggi cerco così di restituire qualcosa.

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Q 400 Jean Todt - Missione sicurezza

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