Architetto, come irruppe nella coscienza collettiva degli italiani l'attenzione per l'ambiente?
Nella mia memoria, l'idea dell'ecologia e della necessità di far nascere comportamenti più attenti alla sostenibilità ha radici lontane, che collocherei tra la fine degli anni 60 e i primi 70. Qualcuno aveva iniziato a scriverne, ma non se ne parlava ancora con continuità. Erano anni molto politicizzati: io stesso, da studente, mi ero molto interrogato su quale fosse il mio ruolo e quale quello della mia professione. Le professioni non erano più inquadrate come mi era stato insegnato a scuola, ma si mescolavano e le domande che mi facevo, insieme con i miei colleghi dell'epoca, erano: che cosa deve produrre un architetto? Deve solamente tirar su muri di mattoni, scaraventando tonnellate di cemento armato sulla faccia della Terra? Improvvisamente, come se nel cammino ci fosse stato un inciampo, questo pensiero concettuale si è imbattuto nei temi della sostenibilità e della consapevolezza del fatto che le risorse non dureranno per l'eternità. Si è così combinato un tema culturale legato all'architettura – intesa come scienza che si occupa della creatività degli uomini e che stimola nuovi comportamenti e nuovi utilizzi degli oggetti, delle città, delle case – con quello della sostenibilità. E da allora fino ai giorni nostri questi due temi non si sono mai più separati.
In quel periodo l'ex sindaco di Milano, Carlo Tognoli, diventato ministro, promosse una legge per favorire la realizzazione di parcheggi per residenti. Già allora, però, c'era chi avversava la creazione di posteggi, considerandoli generatori di maggior traffico: che cosa pensa di questi due approcci, agli estremi opposti?
Che sono, appunto, due estremi: è un pensiero binario, come quello al quale siamo abituati oggi, in cui tutto è bianco o nero. In realtà, tra il bianco e il nero c'è uno spettro di possibilità. Vero è che entrambe le soluzioni comportano controindicazioni. Da una parte, mettere tante auto sottoterra nel centro della città significa aumentarne il flusso sulle strade in entrata e uscita dal perimetro urbano; dall'altra, però, non creare i parcheggi significa mettere in crisi tante parti della città che non sono raggiungibili o lo sono con difficoltà. Riuscendo a trovare la giusta combinazione tra queste esigenze si arriva a una condizione non molto diversa da quella in cui siamo oggi. Però, il grande tema della città è far sì che sia viva, perché una città viva non è monotona. Il suo grande valore è la capacità di continua innovazione, di continui suggerimenti per la vita. Quando camminiamo per le strade di una città avvertiamo così tanti stimoli da sentirci felici, da cambiare umore anche se siamo usciti di casa rabbuiati. Questo perché la città è fatta di tante combinazioni, per esempio di tante persone; e guardare le persone vuol dire riconoscere le diversità, i diversi caratteri, stati sociali e culturali, provenienze. Vuol dire riconoscere le differenze. Questa è la regola della creatività, per scrutare bene all'interno degli ambienti e delle relazioni personali. La città, poi, è la diversità per eccellenza nell'architettura, perché ci sono case fatte in epoche diverse, negozi con prodotti differenti, automobili di tante tipologie, da quelle di lusso alle utilitarie, da quelle a benzina o gasolio alle elettriche.
Lei già nel 1989 vinse il Compasso d’oro Adi con il progetto della lampada Tolomeo, ancora oggi in produzione. C'è qualcosa che oggi il design industriale può fare per rendere l'auto e il suo uso più compatibili con le città?
Penso sicuramente di sì. E credo che tanti esperimenti stiano portando proprio in questa direzione, facendo della diversità un valore. Che è fondamentale, tra uomini, personalità, ambienti, soluzioni di uso delle strade e delle piazze, come lo è nella natura: più l'ambiente è diversificato, più cresce, più si combinano le cellule, più si produce evoluzione. È così anche nel mondo dell'auto: quello che cerchiamo in tutto ciò che facciamo è evoluzione, perché sappiamo benissimo che ciò che siamo non ci basta. E, soprattutto, dobbiamo necessariamente inventare qualcosa in più, perché in futuro vivere in 8 miliardi di persone sulla crosta terrestre sarà sempre più difficile.