Gli ultimi anni 80 sono, per Michele De Lucchi, architetto e designer, quelli della consacrazione. Ottenuta anche sull'onda dell'attività svolta con il gruppo Memphis, il collettivo d'innovazione dell'industrial design nato nel 1980 sotto l'ala di Ettore Sottsass e capace via via d'integrare figure del calibro di Aldo Cibic, Alessandro Mendini e Andrea Branzi. Nell'89, De Lucchi viene insignito del prestigioso Compasso d'oro per Tolomeo, la sua lampada ancora oggi in produzione. Ma la fine degli anni 80 e i primi 90 sono anche il periodo in cui s'incrina il rapporto tra le città e l'auto: si prende coscienza del problema dell'inquinamento, al quale i pubblici amministratori reagiscono con le targhe alterne.

Michele De Lucchi

Dalle lampade ai grandi ponti. Originario di Ferrara, dov'è nato nel 1951, Michele De Lucchi si è dedicato presto al design, facendo parte negli anni 80 del gruppo Memphis e realizzando oggetti iconici come la lampada Tolomeo, la sedia First e accessori per Kartell. Suoi sono anche edifici come il Ponte della pace di Tbilisi (Georgia, 2010), la cappella di San Giacomo a Fischbachau (Germania, 2012), il Padiglione Zero dell'Expo di Mlano (2015) e il Padiglione Unicredit di Milano (2015).

Q 800: l'intervista a Michele De Lucchi

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Architetto, come irruppe nella coscienza collettiva degli italiani l'attenzione per l'ambiente?
Nella mia memoria, l'idea dell'ecologia e della necessità di far nascere comportamenti più attenti alla sostenibilità ha radici lontane, che collocherei tra la fine degli anni 60 e i primi 70. Qualcuno aveva iniziato a scriverne, ma non se ne parlava ancora con continuità. Erano anni molto politicizzati: io stesso, da studente, mi ero molto interrogato su quale fosse il mio ruolo e quale quello della mia professione. Le professioni non erano più inquadrate come mi era stato insegnato a scuola, ma si mescolavano e le domande che mi facevo, insieme con i miei colleghi dell'epoca, erano: che cosa deve produrre un architetto? Deve solamente tirar su muri di mattoni, scaraventando tonnellate di cemento armato sulla faccia della Terra? Improvvisamente, come se nel cammino ci fosse stato un inciampo, questo pensiero concettuale si è imbattuto nei temi della sostenibilità e della consapevolezza del fatto che le risorse non dureranno per l'eternità. Si è così combinato un tema culturale legato all'architettura – intesa come scienza che si occupa della creatività degli uomini e che stimola nuovi comportamenti e nuovi utilizzi degli oggetti, delle città, delle case – con quello della sostenibilità. E da allora fino ai giorni nostri questi due temi non si sono mai più separati.

In quel periodo l'ex sindaco di Milano, Carlo Tognoli, diventato ministro, promosse una legge per favorire la realizzazione di parcheggi per residenti. Già allora, però, c'era chi avversava la creazione di posteggi, considerandoli generatori di maggior traffico: che cosa pensa di questi due approcci, agli estremi opposti?
Che sono, appunto, due estremi: è un pensiero binario, come quello al quale siamo abituati oggi, in cui tutto è bianco o nero. In realtà, tra il bianco e il nero c'è uno spettro di possibilità. Vero è che entrambe le soluzioni comportano controindicazioni. Da una parte, mettere tante auto sottoterra nel centro della città significa aumentarne il flusso sulle strade in entrata e uscita dal perimetro urbano; dall'altra, però, non creare i parcheggi significa mettere in crisi tante parti della città che non sono raggiungibili o lo sono con difficoltà. Riuscendo a trovare la giusta combinazione tra queste esigenze si arriva a una condizione non molto diversa da quella in cui siamo oggi. Però, il grande tema della città è far sì che sia viva, perché una città viva non è monotona. Il suo grande valore è la capacità di continua innovazione, di continui suggerimenti per la vita. Quando camminiamo per le strade di una città avvertiamo così tanti stimoli da sentirci felici, da cambiare umore anche se siamo usciti di casa rabbuiati. Questo perché la città è fatta di tante combinazioni, per esempio di tante persone; e guardare le persone vuol dire riconoscere le diversità, i diversi caratteri, stati sociali e culturali, provenienze. Vuol dire riconoscere le differenze. Questa è la regola della creatività, per scrutare bene all'interno degli ambienti e delle relazioni personali. La città, poi, è la diversità per eccellenza nell'architettura, perché ci sono case fatte in epoche diverse, negozi con prodotti differenti, automobili di tante tipologie, da quelle di lusso alle utilitarie, da quelle a benzina o gasolio alle elettriche.  

Lei già nel 1989 vinse il Compasso d’oro Adi con il progetto della lampada Tolomeo, ancora oggi in produzione. C'è qualcosa che oggi il design industriale può fare per rendere l'auto e il suo uso più compatibili con le città?
Penso sicuramente di sì. E credo che tanti esperimenti stiano portando proprio in questa direzione, facendo della diversità un valore. Che è fondamentale, tra uomini, personalità, ambienti, soluzioni di uso delle strade e delle piazze, come lo è nella natura: più l'ambiente è diversificato, più cresce, più si combinano le cellule, più si produce evoluzione. È così anche nel mondo dell'auto: quello che cerchiamo in tutto ciò che facciamo è evoluzione, perché sappiamo benissimo che ciò che siamo non ci basta. E, soprattutto, dobbiamo necessariamente inventare qualcosa in più, perché in futuro vivere in 8 miliardi di persone sulla crosta terrestre sarà sempre più difficile.

È così anche nel mondo dell'auto: quello che cerchiamo in tutto ciò che facciamo è evoluzione, perché sappiamo benissimo che ciò che siamo non ci basta

Tra la fine degli anni 80 e i primi 90, il mondo della politica amministrava le città con una certa – per così dire – euforia, senza però curarsi di gestirne lo sviluppo urbanistico: c'è stata, storicamente, una carenza di programmazione nell'uso del territorio?
Sì, e c'è ancora oggi: è chiaro che il problema del rapporto tra la periferia e il centro storico non è risolto. Le periferie si sono espanse e continuano a farlo senza identità, mentre i centri storici, che non possono crescere, sono sempre più compatti, pieni di uomini, cose, attività e diversità, il che è un grande problema. La questione delle periferie non riguarda soltanto la bellezza o la bruttezza delle nostre città, ma è un tema sociale che attiene alla crescita di una nuova generazione di persone sempre più numerosa, che soffre della mancanza d'identità e diversità. La necessità di costruire, in quegli anni, periferie per soddisfare l'urgente esigenza di spazi abitativi ha fatto sì che tutto fosse standardizzato. E la standardizzazione di edifici e appartamenti tutti uguali ha creato la mancanza di quell'identità di cui invece abbiamo bisogno. Dobbiamo reinventare le periferie, come centri con un significato e una rappresentatività, facendo per esempio delle scuole dei simboli della capacità di vedere il futuro.

Alla fine degli anni 80, quelli della “Milano da bere”, si è affermata una concezione elitaria del centro storico - riservato alla moda, alle banche e a residenti in grado di permettersi l’alto costo delle case e della vita - che si rivede anche oggi: c'è il rischio di una frattura fra il centro e le periferie?
Il rischio c'è. Ma la città non dev'essere solamente il suo centro, è anche la sua periferia. Anzi, più andiamo avanti, più ci rendiamo conto di come la vera qualità di una città si esprima nella sua periferia, da come inietta nei quartieri periferici il futuro che si vuole realizzare. I centri storici sono belli, esprimono valore e sono dedicati alle attività di successo; però le cose nuove non si fanno in aree che, per certi versi, sono statiche, in quanto bisogna difendere i monumenti e la qualità delle vecchie architetture. E che, quindi, è molto più difficile modificare. Le periferie, invece, sono veramente una tavola bianca, una lavagna pulita sulle quale esprimere tutte le ambizioni che l’uomo ha rispetto al suo futuro.

Già alla fine degli anni 80 si avvertiva l’esistenza di un problema poi esploso con lo sviluppo dell’e-commerce, quello della distribuzione delle merci nell’ultimo miglio sul territorio. Nel rapporto tra la città e la mobilità, questo aspetto creava o sta creando delle conflittualità? Oppure vede delle possibili soluzioni?
Questo è un bel punto di domanda. Come si esprimerà il mondo del commercio, adesso che è esploso il grande fenomeno della vendita diretta online? Accidenti, non è più così chiaro! Frequento molto le aziende che producono mobili e ho scoperto che, in questa fase di passaggio, si stanno chiedendo quale sarà il destino della commercializzazione dei loro prodotti. Credo che, per dare una risposta, manchi ancora un fenomeno alternativo. Noi, ora, abbiamo da un lato le vendite attuate attraverso il retail tradizionale, dall’altro l’attività dell’e-commerce: penso che in mezzo manchi qualcosa che faccia scattare il desiderio dell’acquisto. L’acquisto è un’attività molto emozionale e i tecnici che ne studiano gli impulsi sanno che non è mai un fatto razionale, ma emotivo: la razionalità interviene solo in una piccolissima fase, nella quale si analizza il rapporto tra i costi e i benefici, il valore del prodotto con la spesa necessaria per ottenerlo. Ma quello che conta, soprattutto nel mondo dell’auto, è appunto l’aspetto emotivo, quanto un certo prodotto mi rappresenta, quanto fa parte del palcoscenico sul quale m’immagino di vivere la mia vita. Siamo in un’epoca di teatralità, siamo più teatrali che in qualsiasi altro periodo storico e le città sono gli sfondi di questa teatralità. Insomma, non è soltanto questione di vendere o comprare su un computer: c’è tutto un mondo di seduzione e di confronto tra prodotti diversi che si colloca in un altro territorio, fatto interamente d’immaginazione. Ed è lì che mi aspetto che succeda qualcosa, che si crei un terzo polo che rimetterà un po’ in discussione il confronto diretto tra negozi fisici e acquisti online che viviamo oggi.

Parliamo di auto: ce n'è qualcuna che le suscita emozioni particolari?
Sì, costantemente, perché l'oggetto automobile è quello che meglio rappresenta l'evoluzione dell'idea di tecnologia. La cosa bella dell'auto è che, poco dopo la sua apparizione, sembra già vecchia. La sua vita immaginativa è molto breve e non sappiamo dire perché. Nessuno sa se è perché un colpo di luce è più o meno arrotondato, se un finestrino è più a filo o incassato: non vediamo i dettagli, ma percepiamo quando un'auto è più vecchia. Ora mi aspetto che ci sia una diversa idea di auto con le nuove tecnologie, perché il prodotto è sempre lo stesso, ma lo aggiorniamo all'immagine che abbiamo della tecnologia e dei benefici che può portare. Credo che il mondo abbia bisogno di stravaganza: gli anni 80 sono stati quelli dell'entrata in scena della stravaganza, nella moda e nel design. Con il gruppo Memphis volevamo solo essere stravaganti, non c'era nessun'altra istanza. E dopo le grandi pandemie, come quella della spagnola, ci sono sempre stati momenti di grande fantasia. Succederà così anche con il Covid? Secondo me sì, perché la stravaganza è un desiderio di reimpostare i nostri standard figurativi, le basi sulle quali costruiamo la nostra idea di eleganza, felicità, benessere. Oggi la stravaganza fatica a esprimersi, perché ci siamo abituati un po’ a tutto, non ci stupiamo più. E, invece, arriverà qualcosa che ci sorprenderà!

Potrebbe arrivare da soggetti completamente estranei al mondo dell’auto? In fondo, finora anche Elon Musk ha realizzato dei modelli tecnologicamente diversi, ma dalle forme assolutamente normali…
Finora sì, a parte il Cybertruck, che già rappresenta una forma di stravaganza interessante. Credo proprio che questo bisogno di ridefinire i codici sia del tutto umano. Gli antropologi sostengono che gli uomini sono gli unici animali che realizzano oggetti consapevolmente. Gli uccelli fanno i nidi, le formiche i formicai, i castori le dighe, ma gli uomini fanno degli oggetti non per seguire un impulso, ma perché li vogliono. Perché rappresentano qualcosa, il continuo bisogno di diversità. Li fanno perché vanno continuamente alla ricerca di nuovi simboli e di comunicare attraverso gli oggetti. E una cosa che comunichiamo con gli oggetti è lo spirito del tempo. Le auto, per esempio, ci aiutano moltissimo a riconoscere epoche diverse: anzi, forse sono proprio il codice con il quale meglio definiamo le epoche passate. Quando vedi una 500, pensi subito al periodo in cui eravamo invasi dalle 500.

C'è qualche modello di auto di quel periodo che ricorda in modo particolare?
In Italia erano gli anni del predominio soprattutto della Fiat, per cui i suoi modelli erano quelli che, all'epoca, meglio rappresentavano il mondo.

Le auto ci aiutano moltissimo a riconoscere tempi diversi: anzi, forse sono proprio il codice con il quale meglio definiamo le epoche passate

I politici viaggiavano spesso sulle Lancia Thema: costituivano uno status symbol?
Sì, sicuramente: del resto, le automobili sono come i vestiti, che ci mettiamo perché ci sentiamo bene con questa pelle intorno...

Perché molte auto invecchiano e certi oggetti di design industriale, a partire per esempio dalle lampade che lei ha disegnato, invece no?
Credo che derivi dal senso che diamo alle icone. Ci sono oggetti che diventano icone, che cioè rappresentano più di altri una certa tipologia di prodotto. L'auto, invece, si esprime in un gran numero di forme diverse e questo rende difficile far sì che una sola le rappresenti tutte. Se prendiamo le jeep, la Land Rover ne costituisce un'icona e, quindi, continua a conservare anche oggi lo stesso aspetto; pure la 500 è un'icona, ma solo tra le utilitarie. Non ci sono icone che riescano a rappresentare tutto l'insieme delle auto.

Però la 500 di oggi, come anche la Mini, si rifà chiaramente al proprio passato...
Il valore delle icone è proprio questo: contenere un Dna che sia trasferibile nel tempo. Anch’io della lampada Tolomeo avrò realizzato innumerevoli versioni diverse, tanto che ne presentiamo una nuova ogni anno: ma questo avviene perché contiene dei dettagli che comunque riportano sempre all’oggetto iniziale, il richiamo a una sorta di memoria collettiva.

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Q 500 Michele De Lucchi - Il valore della diversità

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