Inizia con la storia del progetto della seconda city car Fiat, che doveva nascere agli inizi degli anni 90 e che non vide mai la luce, la serie de I Misteri dell'Auto: una raccolta di storie, in alcuni casi di vere e proprie crime o spy story, ambientate nel mondo automotive che Quattroruote ha raccontato negli anni e che vi riproponiamo. Perfette da leggere nei momenti di relax estivo.

Quella notte soffiava il vento. Era uno di quei venti torinesi caldi e secchi, che a primavera scendono dai passi montani, t'arricciano i capelli e ti fanno dolere i nervi e irritare la pelle. Stavo seduto nel mio ufficio di corso Giulio Cesare, uno di quei palazzoni che ci passi sotto e neanche li vedi, un bicchiere di ratafià nella destra e la Nazionale senza filtro tra le labbra, quando l'arnese sulla scrivania prese a strillare come una vecchia gallina.

"Gino investigazioni", dissi io in uno sbuffo di fumo. "Piantala li e vieni subito. C'è una ancora tiepida al Valentino, tre dita di lama piantate in mezzo al collo". Non dissi niente, scesi. L'Alfetta sputacchiò, attraversai in un lampo una Torino silenziosa e deserta. Era un mercoledì di coppa, con la Juve in trasferta. Primo indizio, l'assassino poteva essere milanista. Con uno stridore di freni, la vecchia carcassa si fermò. C'era già tutto il circo, la madama, i ragazzi della scientifica con le polverine per le impronte digitali, il patologo dallo stomaco di ferro. "Identificata?", chiesi a denti stretti al commissario Pastorini, vecchio amico dei tempi in cui anch'io mi lucidavo gli stivali tra le file dei questurini. "Non proprio, ma aveva un soprannome", disse lui, "la chiamavano Baby Small. Era una bella ragazza con tanta voglia di sfondare, ma ancora la conoscevano in pochi".

Brutta storia, pensai io, qui c'è sotto un fidanzato geloso o un padre possessivo. E ce ne sono migliaia, in una città come questa. Me ne andai che stavano ancora coprendo il cadavere. Ma fatti pochi passi, mentre mi accendevo una sigaretta sul LungoPo, la luce dell'accendino mi fece vedere qualcosa per terra, mezza nascosta dall'erba. Un'agendina. Rosa. La raccolsi. Dentro, sulla prima pagina, una mano delicata aveva scritto: "Al mio amore, Baby Small". Un piccolo tesoro. Stupidi, come avevano fatto a non vederla? C'erano solo nomi in codice. Decisi che sarei partito da li. E telefonai.

Quando l'unione non fa la forza. Avrebbe potuto essere cosi, BabySmall. Di tutte le versioni, questa, che chiameremo per comodità Progetto A, era quella che più piaceva al Grande Capo. Il quale, però, chiese d'integrarvi motivi stilistici delle altre quattro proposte

Capitolo I - Gola profonda

"Chi parla?". "Il mio nome non importa. Sono un amico di Baby Small", dissi. "Lo sai che l'hanno trovata infilzata come un pollo allo spiedo?". Dall'altro capo del filo, silenzio. Poi, Gola Profonda (non mi disse mai il suo nome), parlò.

"Me l'aspettavo. Era troppo ambiziosa. Voleva sostituire contemporaneamente la Panda e la Cinquecento". A questo punto ne sapevo già molto, ma lo lasciai andare avanti. "Piccola presuntuosa. Non le bastava un segmento come a tutte le altre, voleva essere A, B, C, al tempo stesso, e magari flirtava anche con qualche sottosegmento, chissà forse una nicchia. Voleva essere trasversale, piacere a tutti. Ed ecco la fine che ha fatto".

Ammiccava alla giapponese. "Non male", pensò subito il Grande Capo. Un aspetto piacente, rotondetto, provocante. II Progetto B aveva delle possibilità concrete di successo. Ma c'era un problema. Una certa somiglianza con i modelli giapponesi, Nissan Micra in testa. E l'A.D. (l'Amministratore Delegato, ovvero il Grande Capo, ma anche il supremo giudice del destino di Baby Small) fini per bocciare anche questa

Riattaccai. Girai pagina e feci un altro numero. "Chi sei?", dissi. "L'Uomo del Marketing, perché?", "Conoscevi Baby Small?". «"Certo, ma non benissimo. Lei era un tipo un po' sfuggente. Si diceva che le sarebbe piaciuto viaggiare all'estero. Era un po' morbida come la Cinquecento sofisticata come una Y10, pratica come una Panda. Una in gamba, insomma. Si diceva anche che sua mamma fosse una Cinquecento e che le sue origini alla lontana fossero oscure. Doveva piacere ai polacchi. Ehi, ma mi senti?". "Certo che ti sento, continua, parlami un po' dei polacchi". "Beh, sai come sono fatti quelli dell'Est. Grandi e grossi, grandi bevitori, grandi famiglie piene di figli. E piccole macchine. Questione di grana. Sognano la Punto e comprano la 126. Baby Small era il loro desiderio proibito. Spaziosa, ma non cara. Non posso dire altro. Parla con quella che l'ha portata in giro per l'Europa".

Poteva essere una buona pista. Dovevo insistere. Feci un altro numero. Quello della Donna del Marketing. Giocai subito le mie carte. "Sono il detective Gino. Sto indagando sulla fine della piccolina. Dimmi cos'hai fatto nelle ultime settimane". "Abbiamo viaggiato molto", rispose lei, "in Italia e all'estero. Molto estero, Belgio, Germania. Abbiamo cercato di capire che cosa vuole la gente che pesca nel Segmento A. Grandi alberghi, buoni ristoranti, ho speso un sacco di soldi. Sono pulita, ho l'alibi, vuoi le ricevute?". Basta così, grazie. Richiamai Gola Profonda. Gli spiegai tutto. "Sei fuori strada, amico", mi disse. "Sai com'era veramente Baby Small per la banda del Marketing? Lussuosa. Tecnologica. Economica. Sbarazzina. Classica. Due posti. Station wagon. Pick-up. Leggera. Ma resistente come una Mercedes. Sobria nei consumi. Ma brillante nelle prestazioni. Non piccola, su questo non c'erano dubbi. Insomma, era tutto e il contrario di tutto. E tu ti fidi di quelli?".

Eri piccola, piccola così... Ecco le tracce di un documento del quale siamo venuti in possesso durante la nostra indagine. Baby Small, in origine, doveva avere le misure della Cinquecento, poi le esigenze di confort finirono per portarla quasi sulla stessa taglia della Punto

Capitolo II - Alla voce "Tecnico"

Avevo capito la lezione. Voltai un'altra pagina dell'agenda. Lettera T. Come Tecnico. Gli ingegneri si che sono seri, pensai. "Cosa vuoi da me?", mi disse. "Lo sai che sono un tipo riservato". "Parla", risposi, "tira fuori dal Cassetto quel progetto che sai, che per fortuna non ha mai visto la luce...". Funzionò, naturalmente. "Non ho fatto fuori io Baby Small, se è questo che vuoi sapere. Ce l'avevo messa tutta, per far le cose bene. 'Prendi il pianale della Cinquecento, allargalo, allunga il passo', mi dissero. Però la trazione integrale non si poteva fare. 'Non importa', disse il Marketing, 'lа comperiamo dai francesi'. Però è troppo bassa. 'Non importa', sempre il Marketing, 'tanto in fuoristrada non ci va più nessuno'. I motori? 'Van bene quelli che ci sono'. E io, sempre a mandar giù. E l'elettrica? 'Vedremo. Tu pensa al servosterzo, al condizionatore e all'Abs, le cose che servono'. Ma tutto non ci sta, cosi l'allunghiamo un po'. Cresce il peso? Allora usiamo motori nuovi. Oppure la carrozzeria d'allumino. O la fibra di carbonio. 'Ma siete matti, con quello che costano?', diceva qualcuno. Insomma, hai capito che io con la fine di Baby Small non c'entro".

Colpa delle forme botticelliane. Simpatica. Graziosa. Soprattutto per il suo volto quasi umano, gradevole. La proposta di stile contenuta in Progetto C aveva molte carte in regola per affermarsi. Ma anche in questo caso, non tutto funzionava a dovere. Il posteriore venne giudicato meno riuscito. Venne trovato botticelliano, pesante. E per una piccola, questo non può essere considerato un complimento. Bocciata

Capitolo III - L'uomo che sapeva

Già, ma allora chi era stato? Presi l'Alfetta, sempre più ansimante, e prima dell'alba, agenda della piccola alla mano, andai a bussare a parecchie porte. Dall'Uomo della Produzione. Un tipo duro, sempre in stabilimento. "Ehi amico, sei fuori strada", mi disse. "Io so solo che di Baby Small ce ne volevano tante. Questo voleva dire raddoppiare gli impianti e allargare la fabbrica. Loro mi davano la grana e io lo facevo. Niente grana, niente lavoro. Tutto qui. E adesso fila". Provai con gli stilisti. Altra cultura, pensai, qui c'è il meglio del made in Italy. Nei girai parecchi, anche fuori città, uno doveva essere molto intimo della famiglia di Baby Small, gli altri un po' meno. Finalmente trovai l'uomo giusto. Mi disse "Vediamoci" e davanti a una bottiglia di Barolo attaccò a parlare. Io versavo, lui beveva e raccontava. "Fu nel '92 che presero la decisione più importante. Quella di definire una sostituta per Panda e Cinquecento, che nel '98 sarebbero state ormai vecchie. Dissero subito che una sola doveva bastare per sostituirle tutt'e due, e magari far fuori anche la Y10. Scelsero il pianale della Cinquecento, perché era il più moderno. Per il cuore, ovvero i motori, nessun problema: c'erano già, andavano benissimo il vecchio 903 e il Fire. Sospensioni? Pronte anche conio, prese sempre dalla Cinquecento".

Un avvenire stroncato sul nascere. A differenza delle altre proposte di stile, Progetto D non ebbe fortuna fin all'inizio. II suo difetto più grave? Non andava a genio al Grande Capo, che la considerava un'opera minore, neanche tanto riuscita, di un grande maestro del design. C'era, nel suo aspetto, un qualcosa che l'A.D. giudicava banale, non all'altezza del compito che attendeva il nuovo modello al suo lancio sul mercato

"Restava il problema del vestito. Urgente. II Grande Capo in persona decise che bisognava mettersi nelle mani dei 'sarti' dell'hinterland torinese, sai c'è una vera e propria tradizione da quelle parti". Prese fiato, vuotò il bicchiere, accese una sigaretta e continuò: "Tirò dentro anche suoi uomini più fidati. Lui li chiama quelli del Centro. Disse che poi avrebbe scelto l'abitino che più gli piaceva, budget permettendo. Ci vollero due anni. Due lunghi anni di lavoro. E di paura. Perché nessuno poteva permettersi di sbagliare, di tradire il progetto tecnico. Ce la misero tutta. E fecero davvero dei bei modelli, anche se ispirati ai gusti del Capo: furono prudenti, nessuno voleva farsi buttare fuori subito dal gioco. Venne il giorno della verità, la scelta. Doveva essere primavera, diciamo fine marzo o giù di lì. Faceva già caldo a Torino. Il Grande Capo ci convocò a casa sua, il posto supersicuro, come lo chiamava. Eravamo tesi. A me e a qualcun altro della Casa dissero di uscire. Solo perché portavamo le scarpe a punta, il Capo le detesta. Ci ritrovammo tutti in una stanza, guardandoci l'un l'altro senza sapere cosa dire". "Cosi, al momento buono non eravate presenti", chiesi io. "No, ma quello che ti racconto lo so per certo, puoi fidarti", rispose con una voce ormai impastata dall'alcol. "Il Grande Capo guardò le cinque proposte. Le valutò, le scrutò, le soppesò una a una. Poi, d'improvviso, s'infuriò, urlò che non gliene piaceva nessuna. L'ufficio si era fatto gelido. I visi, pallidi. Penso che già a quel punto il destino di Baby Small fosse segnato". Annui. E lo lasciai a finire la bottiglia.

Ma non tutto è perduto. Baby Small non si farà. Ma forse l'idea potrà essere ripresa. E c'è chi pensa già a una versione basata su nuove concezioni tecniche. I prossimi anni ci diranno se diventerà realtà. Noi la terremo d'occhio. Per il momento vi presentiamo in anteprima anche questa proposta di piccola tuttofare, concepita a Torino e dintorni

Capitolo IV - La fine

M'incamminai per la strada. Lo Stilista mi aveva detto molto, ma non tutto. Restava ancora qualche piccolo tassello da mettere a posto. Entrai nella Banca. Cercavo un doppiopetto grigio. II Direttore Finanziario. La segretaria voleva che prendessi un appuntamento. Le dissi di guardare sull'agenda e mentre lei si chinava spalancai di colpo la porta massiccia. II Direttore stava là, calcolatrice in mano. Si nascondeva dietro pile immense di tabulati, diagrammi, relazioni. Gli feci le solite domande. Dove aveva passato la notte? Ma, soprattutto, quanto poteva costare Baby Small? Era l'unico a potermelo dire. "Vede", incominciò cercando di confondermi con la sua eloquenza, "deve sapere che perché un qualsiasi prodotto industriale abbia un margine di profitto che consenta a un'azienda di autofinanziarsi e sopravvivere, esso deve avere un costo pari circa alla metà del prezzo di vendita". Incominciai a non capire più niente. Ma in quel momento arrivò proprio Lui. Il Grande Capo. L'A.D. (l'Amministratore Delegato) in persona. Sorridente. Cordiale. Con quella faccia da eterno giovanotto. Mi prese sottobraccio, mi portò alla finestra. Fuori c'era la città, con la sua afa, le fabbriche, gli operai, gli immigrati, la Juventus e, soprattutto, il Torino. La vita, insomma. La stanza, invece, mi sembrava irreale. "Baby Small", incominciò a dire con la sua voce suadente, "alla fine era diventata grande più o meno come una Punto, pesava poco meno, aveva quasi le stesse dimensioni, i medesimi motori. E, cosa mai vista, avrebbe dovuto avere addirittura due plance, a scelta del cliente. Veniva dalla Polonia, e tu sai che gli operai polacchi costano un po' meno, ma sono in tanti in quella vecchia fabbrica. Produrla costava 100.000 lire in meno che una Punto, ma il suo prezzo secondo il marketing avrebbe dovuto essere di tre o quattro milioni più basso. Il che era impossibile. Non meritava di vivere". Non aggiunse altro. Scesi lo scalone, sigaretta in bocca. Adesso sapevo chi aveva ucciso Baby Small.

La cugina francese. Poteva farcela, Progetto E. Nel complesso, il giudizio del Grande Capo era favorevole. Ma anche in questo caso, ci fu un particolare fatale. Giocò a suo sfavore soprattutto una certa rassomiglianza con una cugina francese, ben nota all'A.D. A quel punto, il destino di Baby Small era davvero segnato: sulle nostre strade, almeno così com'era, non sarebbe mai arrivata