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Mini
A vent'anni dalla presentazione del remake della celebre icona british, il designer americano Frank Stephenson racconta com'è stato il processo che ha portato a creare il nuovo modello. Svelandoci i retroscena della lavorazione del prototipo e poi della vettura di serie
È stata la R5 l’ultimo colpo a effetto piazzato dalla Renault. Con una concept che prende spunto dalla famosa utilitaria degli anni 70-80, ma che, nella sua seconda vita, dovrà rendere popolare la mobilità elettrica. È solo la manifestazione più recente di una voglia di amarcord che resiste, tra le Case, dalla fine degli anni 90: riportare in vita, cioè, un modello simbolo del passato, aggiornandolo ai nostri tempi, a una nuova sensibilità. In realtà, la R5 non è che l’ultimo – per ora – esempio di una lunga serie di "ritorni", che dal 1997 ha annoverato nomi illustri, come quello della Volkswagen New Beetle (erede del Maggiolino), della Mini, della Fiat 500, dell’Alpine A110. Modelli che, nella versione originale, seppur in "quote" differenti, hanno scritto un pezzo di storia dell’automobile.
Un'auto che ha fatto scuola. Tra i remake che abbiamo citato, e che hanno avuto successo, oltre alla Fiat 500 svetta la Mini del 2000, che ha reso possibile la prosecuzione di una leggenda: quella della Mini originale, lanciata nel 1959 grazie al genio di Sir Alec Issigonis e prodotta fino al 2000 sotto vari marchi (anche quello dell’italiana Innocenti). Una piccola innovativa che, sposando il motore anteriore trasversale e la trazione davanti, ha fatto scuola per la sua guida sprintosa e le grandi vittorie nei rally. Il modello moderno, invece, festeggia proprio in questi giorni il suo ventennale dalla presentazione della versione One, avvenuta al Salone di Ginevra del 2001 (mentre il lancio commerciale, almeno per l’Italia, risale all’8 settembre successivo). Giunta alla terza generazione, la Mini di oggi ha esplorato anche formati inediti di carrozzeria.
Sotto, una carrellata di bozzetti, tutti firmati da Stephenson. Si tratta di studi, di dettagli e di "visioni" sul futuro del modello, cioè su come avrebbe potuto essere declinata, in un secondo tempo, la Mini del 21° secolo. Il designer si spinge infatti anche oltre al tema hatchback tre porte e immagina la Mini Clubman (poi realizzata) e le Mini roadster e pick-up, mai entrate in produzione.
1995: parte il progetto della nuova Mini. Un successo che viene da lontano, quello della nuova Mini, ovvero dal lavoro realizzato a partire dalla seconda metà degli anni 90. Per raccontarvelo, ci accompagna in questo viaggio a ritroso proprio chi pensò le forme della Mini del 2000: quel Frank Stephenson diventato uno dei più famosi designer al mondo. Prima, però, è necessario compiere un piccolo passo indietro. Fino al 1994, quando la BMW acquisisce il gruppo Rover, che possiede pure il marchio Mini. La Casa bavarese, in realtà, sta già valutando da tempo di ampliare la sua gamma verso il basso: lo dimostra, tra l’altro, la presentazione di alcune concept, tra cui la E1 elettrica del 1991. Con l’acquisizione della Mini, però, si fa strada un’altra… strada: quella di rieditare il simbolo inglese a quattro ruote in chiave moderna. Anche perché il modello della Rover rappresenta sì un’icona, ma è anche basato su un progetto vecchio di oltre 35 anni e comincia quindi a faticare a soddisfare i requisiti più moderni in tema di sicurezza ed emissioni. La Mini ha la peculiarità della trazione anteriore e, di conseguenza, non può essere ripensata con la posteriore, marchio di fabbrica della BMW. Così i vertici tedeschi capiscono che, se si vuole sfruttare il "bulldog" inglese, seguito da milioni di fan e collezionisti in tutto il mondo, bisogna aprire un capitolo nuovo: quello di un’auto piccola (seppure più grande dell’originale), di fascia premium, ma dal prezzo d’attacco abbastanza abbordabile. I lavori partono nel 1995 e il progetto non si presenta facile: la Casa tedesca ha gli occhi puntati addosso e non può sbagliare nulla.
Il team che ha lavorato alla versione definitiva della Mini. Frank Stephenson è l'ultimo, a destra
La Mini di Stephenson. Riviviamo quel periodo con chi tramutò in realtà l’idea di fare la Mini del 21° secolo: Frank Stephenson, appunto. "Era la fine di aprile del 1994", racconta il designer, che abbiamo raggiunto via web, "e stavo lavorando in Italia alla concept di quella che poi sarebbe diventata, anni dopo, la prima X5. Tornando a Monaco, avevo sentito che la BMW, dopo l’acquisizione della Rover, voleva rifare la Mini, ormai a fine carriera". Si partiva da un foglio bianco e alla Casa tedesca volevano lasciarsi aperte tutte le porte. "In quella situazione", ricorda Stephenson, "invece di puntare, com'era sempre stato fatto, su tre proposte di stile, la Casa decise che ne avrebbe esaminate 15: cinque dei centri BMW, quattro della Rover, cinque designworks californiani e uno italiano (lo studio era di Torino: non quello di Giugiaro, ma al riguardo Stephenson non vuole sbilanciarsi, ndr). Ai vari gruppi di lavoro era stato dato un solo vincolo: "L’auto", spiega Stephenson, "non doveva essere più lunga, né più corta, di tre metri e 60 centimetri. Ci avevano dato sei mesi di tempo e non potevamo assolutamente scambiare informazioni con gli altri gruppi. Il lavoro iniziò nel 1995. Avevo una squadra di cinque persone, abbastanza per quello che ci aspettava".
Evoluzione ricreata. Ma lui, come se la immaginava la Mini? "Prima di tutto ho fatto una ricerca sul tema. La Mini aveva una storia troppo importante per fare un nuovo modello totalmente diverso: insomma, non potevamo ripartire da zero. In seguito, parlando con gli altri stilisti, ho saputo che loro avevano iniziato subito a plasmare le nuove forme. Io invece mi presi due o tre giorni di tempo per pensare e feci un po’ di ricerche per trovare quegli elementi che potessero rendere il carattere e l’emozione stilistica della Mini. Che era sempre rimasta la stessa nel tempo. Pensai a cosa sarebbe successo se la Mini fosse stata aggiornata. Così, immaginai come avrebbe potuto essere la Mini del 1969: e quella fu la mia prima settimana di lavoro. Poi disegnai l’ipotetica Mini del 1979, dopo la crisi petrolifera, con più attenzione alla sicurezza. Nella terza settimana toccò alla Mini dell’89, più veloce e aerodinamica, quindi a quella del 1999 (ma poi tratteggiò anche quella del 2009, ndr). Quattro generazioni di Mini mai esistite. Così il modello avrebbe avuto una evoluzione credibile, senza un salto unico di 35 anni". Ma la sua, il salto nel futuro lo fece comunque… "Quando videro la mia Mini, gli ingegneri dissero subito che così non si poteva fare. Il cofano, intanto, era grandissimo, con quella forma a guscio da stampare in un pezzo unico e i fari integrati. E poi i vetri, da realizzare senza interruzioni con i montanti B e C. Però, dissi loro: la sfida sarà di realizzarla proprio così, sennò non sarà lei". Per creare un bel design è importante il carattere della macchina, la parentela con l’originale. Dopo, però, bisogna lanciarsi in avanti. E così ha fatto Stephenson, che non ha puntato su un modello rétro, ma sulla reinterpretazione moderna di un’icona del passato.
Sotto, le fasi di studio a Monaco delle forme del prototipo con la prima idea riguardante la Mini Sport Pack (marzo 2001). Il modellatore dell’argilla è Colin Laing. Si noti la precisione con cui lo stesso Stephenson verifica i volumi e lo sviluppo dei dettagli nella coda e nelle fiancate, creando anche il “contorno” dei gruppi ottici.
Vittoria piena. Nell’ottobre 1995 va in scena la scelta finale tra le 15 proposte, al museo di Gaydon, con modelli in scala 1:1. "Uno spettacolo incredibile", ricorda il designer, "perché i modelli erano di argilla, ma, verniciati così bene, sembravano auto vere". Alla fine vince per "14-0" la proposta di Stephenson, votata dai sette dirigenti della Rover e da altrettanti della BMW incaricati di valutare i lavori. "Per me la nuova Mini era mia figlia", ricorda il designer, "ma c’erano comunque altre proposte interessanti".
Corsa a ostacoli. A quel punto sembra tutto in discesa, invece iniziano i problemi. Poco dopo, in novembre, Stephenson si trasferisce da solo in Inghilterra, nella sede di Gaydon, per dar vita alla fase di realizzazione del prototipo finale. Ricorda ancora il designer: "Wolfgang Reitzle, responsabile dello sviluppo prodotto, e Chris Bangle, capo del Design della BMW, mi avevano detto di non farmi stravolgere lo stile dagli ingegneri. Infatti, sul mio telefono, era come se io avessi avuto un “bottone rosso” da premere per parlare direttamente con Reitzle, in caso di problemi". Niente di più profetico. Stephenson invia agli inglesi i dati delle superfici del modello e loro iniziano i lavori di fresatura. "Quando arrivai, vidi il modello della Mini e chiesi: dov’è il mio? “È questo il suo”, mi dissero. No, non è quello. E loro risposero che l’avevano migliorato. Mi arrabbiai un po’, ma sapevo che dovevo restare là alcuni anni per lo sviluppo e quindi non volevo cominciare con il piede sbagliato. Allora dissi: facciamo la parte sinistra come la volete voi e la destra come l’ho pensata io. In questo modo, però, abbiamo perso il primo anno di sviluppo". Ogni tre mesi arriva in visita Reitzle per verificare l’avanzamento dei lavori e quando vede la Mini sbotta: "Ma che cosa è successo alla parte sinistra? Il cofano non è quello che ho visto. Dovete cambiarla e farla come la destra". Allora i tecnici inglesi la modificarono, ma non come avrebbe voluto Stephenson. Sei mesi dopo, la scena si ripete, e Reitzle se la prende con la coda, che non è quella vista a Gaydon. "La cosa più divertente", ricorda ancora il designer americano, "è che gli inglesi avevano messo i modellatori migliori sulla loro parte sinistra e due principianti sulla mia parte destra". Nel 1997 la direzione della BMW fa sapere che così si sta perdendo tempo. "Alla fine", racconta il designer, quasi tirando un sospiro di sollievo, "fecero come volevo io, bilanciando le due parti della vettura e tornando alla mia interpretazione. Però, la Mini avrebbe potuto uscire già nel 1999".
La catena di montaggio della Mini nello stabilimento inglese di Oxford
Prototipo a sorpresa. I lavori per la realizzazione della concept avanzano più speditamente, perché la Mini deve fare la sua prima apparizione mondiale, sotto forma di prototipo, al Salone di Francoforte del 1997. Non c’è tempo da perdere, ma proprio riguardo al vernissage, Stephenson ha in serbo un aneddoto gustoso. Ecco le sue parole. "La Mini era finalmente la mia. Sotto la carrozzeria, però, c’era una Fiat Punto". Come una Fiat Punto, chiediamo? "Se si guarda oggi la presentazione, si vede che la vettura aveva i vetri molto scuri, tanto che non si poteva guardare dentro: però l’auto si muoveva. E c’era una persona al volante, un mio amico, che non vedeva quasi nulla. Al momento della presentazione, la Mini doveva uscire da una grande scatola, fermarsi qualche secondo per le foto di rito e poi ripartire, per uscire sulla strada ed entrare in un camion. Quando dovette fermarsi per la ressa dei fotografi, i giornalisti la presero quasi d’assalto e il mio amico non riuscì a rimettere subito in moto l'auto. Qualcuno voleva pure aprire la porta: sarebbe stato un disastro, avrebbero visto gli interni “sbagliati”. Era un momento molto delicato, perché il driver voleva ripartire, ma era bloccato. Quando riuscì a muoversi, sempre inseguito, uscendo dall’edificio svoltò dalla parte sbagliata e, invece di finire sul camion, si ritrovò in contromano su una strada a senso unico". Una vera gag, ma Stephenson e il suo staff riuscirono a ridere soltanto dopo aver recuperato l’auto intatta.
In seguito, inizia la fase d'ingegnerizzazione della vettura, che deve avviarla alla produzione. C’è sempre qualche problema da risolvere, per realizzare una certa forma di carrozzeria, per alloggiare un sistema o un componente. Lo scambio tra il designer e gli ingegneri è fitto e non esente da confronti, perché i tecnici preferiscono sempre imboccare la strada più semplice e meno costosa.
"Nel 1998 arrivò alla Rover una squadra d'ingegneri tedeschi: erano tosti. Mi dissero che loro facevano auto molto più leggere della mia, quindi cambiarono diverse cose nell’ingegnerizzazione della Mini, lavorando assieme ai tecnici inglesi. Insomma, fecero una piccola BMW, togliendo un po’ di peso qua e là: cose normali per la Casa di Monaco, ma costose".
Arriva finalmente il momento della Mini di produzione, presentata per la prima volta al Salone di Parigi del 2000, ma lanciata solo nel corso del 2001. Le versioni sono la One (di cui cade il ventennale del vernissage al Salone di Ginevra), la Cooper e quindi la Cooper S.
Fari integrati nel cofano. Una delle nostre curiosità è relativa al grande cofano con tanto di gruppi ottici integrati. Perché l’ha pensato così? "Per un fatto di sicurezza", risponde Stephenson. "Avevamo visto che per chiudere il “cofango” (parola che deriva dalla fusione di cofano e parafango: portello di copertura del vano motore che ingloba i gruppi ottici e include parzialmente i parafanghi, ndr) della Mini nella versione senza fari si tendeva a mettere le mani negli alloggiamenti vuoti, ed era molto pericoloso. L’altro motivo era di stile: non volevamo che ci fosse “gioco” tra il cofano e i fari, cosa che sarebbe successa con i gruppi ottici fissati al telaio. Qualcuno disse allora che avremmo rotto i filamenti dei fari chiudendo il cofano. E io risposi che avremmo aggiunto un piccolo ammortizzatore per parte, per neutralizzare il colpo. Altri mi fecero notare che a 120 km/h il cofano poteva leggermente vibrare, rendendo poco omogeneo il fascio luminoso. Replicai che avremmo introdotto due ganci “fermacofango”, al posto di uno. A tutto c’è una soluzione, anche se gli ingegneri non sono sempre d’accordo".
E l’aerodinamica, come l’aveva pensata? Ancora Stephenson: "Avevamo realizzato la concept della Mini Cooper e poi avevamo fatto la Cooper S. Dal punto di vista aerodinamico non avevamo una misura di Cx da rispettare, né paletti troppo rigidi. Il parabrezza, infatti, venne realizzato piuttosto verticale, simile a quello originale. Certamente l’aerodinamica era importante, ma al primo posto veniva il design. Reitzle non voleva una Mini aerodinamica, ma un’auto vera, emozionale. E lo stesso valeva per me. Magari il peso e il Cx non erano i migliori della categoria, ma l’importante era che il cliente s'innamorasse della Mini a prima vista".
Insomma, vengono accettati da parte della BMW dei compromessi, perché il focus rimane il bello stile. La lunga gestazione del modello, però, legata anche agli eventi che abbiamo raccontato, fa lievitare i costi di produzione della prima serie. Non sarà così per la seconda (2007), in cui vengono introdotte soluzioni meno costose anche per la carrozzeria.
Una lattina di birra per lo scarico. Come sia nato, in modo casuale, il terminale di scarico della Mini Cooper di serie, svelata ufficialmente al Salone di Parigi del 2000, è risaputo. Ma è sempre bello sentirlo raccontare dal capo. "È stato figlio della disperazione: erano le quattro della mattina prima della presentazione, la macchina era perfetta, mancava però un dettaglio: lo scarico. L’avevamo dimenticato. Andai dal capo dei modellatori e gli dissi: “non possiamo presentarla così, senza terminale”. E lui rispose: “scusami, ma alle quattro del mattino non posso cominciare a lavorarci”. La soluzione era sotto i nostri occhi: lui aveva tra le mani una lattina di birra Budweiser e allora pensai di tagliarla. In cinque minuti era tutto a posto. Il giorno dopo, Bangle mi disse: “Hai fatto un ottimo lavoro, questo sarà molto importante per la tua carriera, ma non devi mai abusare del tempo di un modellatore per fare uno scarico così complicato”. Lui aveva pensato che avessimo impiegato un sacco di ore di lavoro. Non potevo dirgli che era stata una questione di pochi minuti…".
Signore e signori, ecco a voi il genio versatile di Frank Stephenson. E la sua fantastica Mini.
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