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Intervista
Alla guida della Renault per quindici anni, il top manager ha cambiato il volto dell'auto europea
Louis Schweitzer è mancato il 6 novembre 2025. Vi riproponiamo l'intervista che Gian Luca Pellegrini fece al top manager due anni fa, pubblicata su Quattroruote di settembre 2023.
Svizzero di nascita, ma francese di nazionalità, Louis Schweitzer, oggi ottantunenne, è stato presidente e ceo della Renault dal 1990 al 2005. Sicuramente non un car guy, perlomeno secondo l'accezione comune del termine. Ma un mago della strategia che ha definito l'industria dell'automotive di lì a venire.
La sua è stata una carriera particolare nel mondo dell'auto: da servitore dello Stato, è entrato alla Renault. Perché scelse proprio l'ex Régie?
Ho iniziato come impiegato statale e sono diventato capo di gabinetto di Laurent Fabius, che da ministro è poi diventato premier. Nel 1986 ci fu un cambio di maggioranza a Parigi e la mia carriera di funzionario era destinata a fermarsi. A quel punto, ricevetti varie offerte da amministratori delegati di grandi aziende francesi, che avevo conosciuto durante il mio mandato come capo dello staff. E andai sulla Renault per una serie di motivi. Il primo: un'azienda automobilistica è più interessante, perché produce oggetti complessi. Poi, mi piaceva l'idea di una società che è un simbolo in Francia.
Avrebbe accettato di andare in un'altra Casa, come la Peugeot?
No, perché è un'azienda familiare e la libertà d'azione del management non è la stessa di un'impresa pubblica. Dobbiamo ricordare che, in quel momento, la Renault non era stata ancora privatizzata. L'altro motivo fu che il ceo Georges Besse, che fu poi assassinato da terroristi, era un uomo che rispettavo molto. Quando arrivai alla Renault, mi disse che avrei lavorato come tirocinante per almeno sei mesi. Con lo scopo di conoscere l'azienda, ho passato del tempo negli stabilimenti e feci pure un periodo in una concessionaria, cercando di vendere automobili. Non ebbi molto successo.
Lei dunque entrò in una società statale e si ritrovò poco dopo in una privata…
C'era stata un'alleanza con la Volvo che aveva portato alla cessione del 20% delle azioni. Quando fui nominato amministratore delegato, era in corso una negoziazione per allargare ulteriormente l'accordo: lì fu chiaro che la presenza di un azionista pubblico rendeva tutto più complicato e lento. E, infatti, l'idea non fu portata a termine, anche per un netto rifiuto che si fece largo all'interno della Volvo. Questo mi convinse a sostenere la privatizzazione della Renault, perché avvertivo che la conclusione di qualsiasi accordo industriale sarebbe stata pregiudicata dalla presenza dello Stato. Così chiesi al primo ministro Édouard Balladur d'immaginare l'uscita della componente pubblica dalla Régie. Il governo era titubante: temeva che potessero esservi rischi di disordini sociali. Così fu venduta poco meno della metà della proprietà della Renault, la cui maggioranza rimase pubblica. Fu solo nel 1996, con Alain Juppé come nuovo primo ministro, che – a fronte della mia offerta di dimissioni, se ci fosse stato un minimo malcontento sociale – il governo decise di scendere a una quota del 46% e successivamente al 15%.
Perché proprio proprio il 15%?
Perché lo Stato, in un settore molto ciclico come quello dell'automobile, è un'ancora stabile contro possibili acquisizioni ostili. Il mercato va su e giù e, francamente, a volte vali molto e altre volte vali poco. Tutti gli azionisti, se il prezzo è giusto, vendono. Lo Stato è l'unico azionista che conosco che non venderebbe a nessun prezzo, se ritenesse opportuno resistere. Quindi, è stato un elemento di stabilità a mio avviso importante, per la Renault, il fatto che avesse quel 15%.
Oggi in Italia si fa un gran parlare del possibile intervento del governo per difendere le aziende d'interesse nazionale dagl'interessi stranieri: per un ceo è difficile gestire un'azienda, avendo un azionista così ingombrante?
Quando ero amministratore delegato, il governo non interferì mai. L'unico scontro si verificò quando chiudemmo lo stabilimento di Villvorde, in Belgio. Ma quando si trattava di prendere decisioni strategiche, al massimo passavo un'ora con il premier e un'altra con il ministro dei Trasporti. Quanto al resto, non sono certo che l'accordo con la Nissan, se la Renault fosse già stata completamente privatizzata, si sarebbe potuto fare.
Il governo francese al momento possiede una quota del gruppo Stellantis: anche in questo caso la presenza dello Stato è positiva?
Credo di sì, ma ricordiamo che Stellantis è una realtà diversa, perché c'è una forte componente familiare. E le famiglie sono azionisti stabili, con un coinvolgimento che ha una visione a lungo termine. Gli investitori classici, di solito, sono assai volatili.
Nobile famiglia. Originario di Ginevra, dov'è nato nel 1942, Louis Schweitzer è figlio di un economista e pronipote di Albert Schweitzer, teologo, medico e missionario in Africa, vincitore del premio Nobel per la pace nel 1952, nonché cugino di Jean-Paul Sartre. Dopo gli studi alla Scuola parigina di politica, è entrato nella pubblica amministrazione, occupando ruoli di crescente responsabilità fino a diventare capo dello staff del primo ministro Laurent Fabius nell'84. Alla Renault dall'86, ne è stato prima chief financial officer, poi vicepresidente e infine – dal 1990 al 2005 – presidente e ceo.
Torniamo a Renault-Nissan: lei optò per un'alleanza, piuttosto che per la fusione. Lo fece perché la Nissan era più grande della Renault?
Esatto: non avevamo i soldi per rivendicare il ruolo di partner primario in un merger tradizionale. In secondo luogo, il rischio era elevato. Investimmo 5 miliardi di dollari senza comprare una sola nuova azione sul mercato. Potevamo anche permetterci di perdere quei miliardi, ma se la ristrutturazione della Nissan non avesse funzionato ci saremmo ritrovati responsabili di tutti i loro debiti. Quindi, abbiamo preso una quota del 34%, che ci ha dato il controllo, con la facoltà - allo stesso prezzo - di salire al 44. Non dimentichiamo, comunque, che si trattava di due aziende molto diverse: le case automobilistiche sono, a mio avviso, entità speciali, perché rappresentano anche dei brand e le persone sono fedeli ai brand. Ritenni impossibile che 120 mila dipendenti giapponesi potessero essere attaccati a un'azienda francese, o viceversa. Pertanto, la necessità fu di mantenere le società in qualche modo indipendenti, con, ovviamente, partecipazioni incrociate. Non fu un'alleanza fra pari, sia chiaro. A comandare eravamo noi, ma con grande equilibrio, senza imporre alla Nissan qualcosa che non fosse nel suo interesse.
Perché scelse una figura come Carlos Ghosn per dirigere la Nissan?
Veniva dalla Michelin, che essendo un'azienda familiare non gli offriva possibilità di carriera. Lo ritenni molto intelligente, con una personalità forte. Ebbe molto successo come tagliatore dei costi. E aveva una personalità internazionale. Quando lo reclutai era brasiliano e libanese, non ancora francese. Aveva vissuto in America, Brasile, Francia e Libano, quindi secondo me disponeva di un'eccellente apertura internazionale. Insomma, un ottimo manager, un grande artista di turnaround. Del resto, dichiarai pubblicamente che, se non avessi avuto Carlos, non avrei potuto concludere l'affare.
Visto quanto accaduto anni dopo, pensa che Ghosn sia stato vittima di una lotta di potere all'interno della Nissan?
Il suo successo lo ha reso una sorta di semidio, cosa che gli ha fatto progressivamente perdere il contatto con la realtà. Poi, ricordiamo che è rimasto in vetta molto a lungo: inevitabilmente finisci per essere meno coinvolto, per non dire della difficoltà di gestire due aziende profondamente diverse a 10 mila chilometri di distanza. Di certo, la sua tecnica di gestione è sempre stata basata più sullo sprint che sulla maratona. Come manager era migliore di me, ma non è mai stato un ottimo stratega: per quello serve una visione a lungo termine. In ogni caso, quando io ero alla Renault, non fece mai nulla d'inaccettabile: quello che ha fatto dopo è stato chiaramente disonesto.
L'alleanza si è rivelata fruttuosa come pensava?
Siamo entrati alla Nissan e abbiamo salvato l'azienda. Quando sei molto malato e arriva il dottore che dice «metterò il mio letto nella tua stanza per curarti», all'inizio gli sei grato. Una volta guarito, però, se il dottore dorme ancora nella tua stanza, sei un po' meno felice. In secondo luogo, la mia idea era che ci sarebbero stati due capi, uno al vertice della Renault e dell'alleanza intera e l'altro della Nissan. Carlos, per ragioni diverse, voleva essere al vertice di entrambe. E ho visto la sua resistenza nel puntare su strategie condivise, forse perché voleva affermare la sua legittimità di comando all'interno della Nissan. Il risultato, per dire, fu che i due costruttori fecero due automobili elettriche su piattaforme differenti: una pazzia.
Un'altra sua partnership è quella che fece con la Samsung. Perché i coreani?
Per entrare in un mercato in crescita, che all'epoca era completamente chiuso. Abbiamo acquisito una quota di controllo, se ricordo bene, per 200 o 250 milioni di dollari, che era un prezzo davvero conveniente. Nella mia gestione, devo dire, ho sempre cercato di fare affari spendendo poco.
Il suo vero capolavoro, a tal proposito, fu l'acquisizione della Dacia.
Prima che diventassi ceo, la Renault cercò di prendere la Skoda, perché l'idea era disporre di un brand nel segmento entry level. Ma di fronte alla Volkswagen non avemmo alcuna possibilità. Quindi ci guardammo attorno e acquisimmo la maggioranza della Dacia per 50 milioni di dollari. Noccioline. Ero convinto che il mercato automobilistico fosse ormai maturo nei Paesi ricchi, ma chiaramente destinato a svilupparsi in altre economie. E che i nostri modelli fossero troppo costosi per competere in quegli scenari. L'intuizione era corretta, così come fu giusto posizionare la Dacia in modo da non danneggiare la Renault. Il successo è stato persino migliore di quanto mi aspettassi, anche perché non c'è stata una vera e propria concorrenza. Lo stesso avvenne per la Scénic, che per cinque anni dominò il suo segmento indisturbata.
Quindi pensa che Luca de Meo debba ringraziarla, per quella decisione presa ormai tanti anni fa?
Beh, ho sentito dire che la Dacia, oltre ad avere un peso notevole sui conti della Renault, rappresenta il 3% del Pil della Romania, il che è fantastico.
Lei è stato un maestro delle fusioni e delle partnership: oggi ritiene che quella via sia ancora valida per sostenere gli ingenti investimenti necessari alla transizione?
Non credo che esista una formula unica. Infatti, gli affari che ho portato a termine hanno seguito strade diverse. La Dacia non esisteva prima che la comprassimo, la Samsung era un'azienda che doveva morire. Come abbiamo visto, con la Nissan fu cercata un'alleanza. La fusione di aziende crea complessità. C'è una componente di orgoglio, dentro le società, che non va sottovalutata. Per non dire dell'unire realtà che a loro volta sono il frutto di precedenti unioni, come FCA e PSA, che si sono messe insieme per creare Stellantis. Il tema, sempre, è come si costruisce questo insieme.
Debutto. 2 giugno del 2004: il presidente della Romania, Ion Iliescu, svela con Schweitzer a Bucarest la Dacia Logan, che sarà un successo.
Più volte si è parlato della fusione della Renault con il gruppo PSA: avrebbe potuto funzionare?
Ho sempre pensato che fosse un'idea assolutamente stupida. Ora non è più un'ipotesi sul tavolo, ma sarebbe stato un grande problema per la Francia. Avrebbe avuto molto più senso allearsi con un altro costruttore europeo. E, infatti, nel 1992-93 si tentò di unire la Renault e la Fiat.
All'epoca se ne parlò molto: come andò davvero?
Dovevo essere l'amministratore delegato del nuovo gruppo. E ci furono colloqui abbastanza avanzati con Gianni Agnelli. All'epoca il ceo della Fiat era Paolo Cantarella, con Cesare Romiti sopra di lui. Alla fine decisi che non vi erano le condizioni per portare avanti la cosa. Ci sarebbero state buone sinergie, certo, ma anche pesanti ristrutturazioni. Non ero assolutamente sicuro che un francese avrebbe potuto portare avanti una strategia del genere ed essere accettato in Italia.
Come presero gli italiani la sua decisione di non portare a termine l'affare?
Il capo di Mediobanca, Enrico Cuccia, era arrabbiato e pensava che quello che stavo facendo fosse stupido. Mi disse che stavo perdendo l'occasione della vita. Non posso dire, invece, che Cantarella fosse arrabbiato, perché così poté rimanere capo di se stesso.
E come reagì Agnelli?
Era fortemente convinto che la Fiat dovesse fondersi, quindi ritenni che fosse molto deluso. Ma quando sei Agnelli certamente non dai pubblico sfogo alle tue delusioni.
Veniamo al presente. Che cosa pensa della decisione dell'Unione Europea di passare all'elettrico nel 2035? Crede che le Case abbiano accettato questa decisione politica in modo passivo?
Non lo so. Non faccio parte dell'Acea, quindi non posso dire se siano state passive come lei dice. Quando parlo con quelli che conosco, sono piuttosto aggressivi al riguardo.
Però il comune sentire trova l'industria troppo morbida verso la politica...
Diciamo che negli ultimi anni le Case hanno talora perso credibilità. Ogni volta che si discuteva di una nuova omologazione antiinquinamento, dicevano che era impossibile da fare. Poi la si imponeva, e le hanno sempre rispettate. E c'è stato il dieselgate.
Lo scandalo è stato il punto di svolta?
È stato un elemento fondamentale. Penso che i politici percepiscano come per l'opinione pubblica l'inquinamento, tanto quanto il riscaldamento globale, sia un tema centrale. E la loro esperienza, come dicevo, è che, quando l'industria è costretta a fare qualcosa, alla fine lo fa. Quindi, non sono sicuro che i costruttori potessero scegliere.
Coppia al potere. Carlos Ghosn (a sinistra) e Louis Schweitzer hanno convissuto nell'alleanza franco-giapponese quando il primo ha guidato la Nissan.
Il 2035 è una data ragionevole per cambiare effettivamente la struttura industriale dell'Europa?
Conoscendo i produttori per quello che sono, se fissi una data troppo lontana, come il 2050, non succede nulla e le persone non iniziano a muoversi. Forse il 2040 sarebbe stato più intelligente. Ma ora le Case si stanno dando da fare. Per me, i principali sconfitti nella transizione saranno i governi, perché il vantaggio di un'auto elettrica è che non paga le tasse sul carburante. Le perdite fiscali per gli Stati saranno enormi.
I governi le compenseranno pensando a nuove tasse sull'energia...
Non potranno farlo, a meno di non voler compromettere la competitività dell'industria europea. Ma credo che per il cliente l'elettrico rappresenterà una buona soluzione Nel 2005 pensai che costruire la Zoe fosse stupido. Ma oggi ci sono le premesse per creare prodotti validi, con una buona autonomia e un'adeguata velocità di ricarica. La tecnologia delle batterie sta migliorando in una scala impressionante.
E le infrastrutture?
Quando ci sono cambiamenti di questa portata, se aspetti che tutto sia allineato, non accade nulla.
Lei ritiene che la transizione, per come è stata progettata da Bruxelles, sia un regalo dell'Europa alla Cina?
I cinesi sarebbero arrivati comunque. L'auto è una scienza per apprendere la quale impieghi venti o trent'anni. Se guardi i giapponesi, tra il momento in cui hanno iniziato a produrre auto e quello in cui detenevano il miglior standard mondiale, sono passati trent'anni. Lo stesso, per i coreani. E riguardo ai cinesi, ricordo che attorno al 2000 dissero che sarebbero andati al Salone di Parigi, ma poi si ritirarono perché non erano all'altezza degli occidentali. Ora si stanno adeguando e, se venderanno a un prezzo competitivo, avranno successo.
Quindi l'automobile europea, secondo lei, non è a rischio?
Penso che vedremo una grande sfida sul mercato. Dico soltanto che questa sfida sarebbe arrivata lo stesso, perché ora la priorità è il cambiamento climatico. Entreremo in una sorta di economia di guerra, come fecero gli Stati Uniti durante il secondo conflitto mondiale. Per cinque anni un intero sistema industriale si convertì alla produzione bellica. Ecco, vedremo qualcosa di simile nell'affrontare il tema ambientale.
Intanto i governi iniziano a proteggere le loro filiere. Anche Macron sta alzando barriere, cercando di attirare investimenti in Francia.
I costruttori francesi si sono sempre opposti all'arrivo degli stranieri. E questo è stato stupido. Quando la Toyota volle realizzare uno stabilimento in Francia, fui tra i pochi ad applaudire. Da un punto di vista industriale, se produci automobili, il tuo interesse è fabbricarle non troppo lontano dai clienti. Quindi, se i cinesi vogliono diventare protagonisti del mercato europeo, creeranno fabbriche in Europa. E, naturalmente, se fai questa analisi, vuoi che le stabiliscano nel tuo Paese, piuttosto che in un'altra nazione europea.
Scopi umanitari. Dopo aver lasciato la presidenza della Renault, Schweitzer ha ricoperto ruoli in diverse società (come l'azienda farmaceutica AstraZeneca); è stato anche presidente (dal 2005 al 2010) dell'Alta autorità per la lotta contro le discriminazioni e per l'uguaglianza, d'Initiative France, organismo per lo sviluppo delle piccole imprese, e della Fondazione per i diritti degli animali.
Sempre a proposito di Macron, come giudica l'idea di rendere le elettriche accessibili con il "leasing sociale"?
Penso che in Francia abbiamo un livello molto alto di spesa pubblica per sostenere istanze sociali che riguardano la collettività. Ma credo anche che un'auto sia qualcosa che il cliente dovrebbe pagare da sé.
Quindi non crede negli incentivi?
Il politico vuole essere rieletto, quindi sovvenziona le cose che la gente vuole. La verità è che ciò non è normale. Avere lo Stato che finanzia auto inutilmente costose è irragionevole, perché poi devi trovare i fondi e le persone non sono contente quando aumenti le tasse. La risposta è fare auto che non siano inutilmente costose.
Lei si è definito “patron et de gauche”, un padrone ma anche di sinistra: caratteristiche apparentemente contraddittorie…
Sono sempre stato socialdemocratico: lo ero quando diventai capo di gabinetto di un presidente del Consiglio francese e lo sono tuttora. Ma questo non può essere il problema per chi deve condurre un'azienda ed è il primo responsabile del benessere dei dipendenti. Sicuramente sono stato un capo un po' diverso, perché, al contrario della maggior parte dei miei colleghi, sostenevo la riduzione dell'inquinamento, i limiti generali di velocità eccetera. Questo però non ha avuto alcun impatto sulla gestione della Renault. Quando si è trattato di chiudere degli stabilimenti non mi è piaciuto, però era necessario. Bernard Hanon, che fu amministratore delegato prima di Besse, sosteneva che non ci fosse manodopera in eccesso e la Renault stava andando in bancarotta.
Oggi la sinistra sembra appoggiare le rivendicazioni dei gruppi ambientalisti violenti: pensa sia giusto?
Non approvo affatto la violenza. Ma ignorare il movimento è sbagliato: penso che il cambiamento climatico sia un problema importante che dobbiamo affrontare. Non sempre gli ambientalisti dicono la cosa giusta, ma non puoi usare gli esempi sbagliati per dire che tutto ciò che affermano è stupido. Il problema delle auto in città, a mio avviso, è un problema da affrontare. E anche quando ero a capo della Renault, ho affermato che le macchine non dovessero rimanere bloccate nel traffico, perché fa male alla città, fa male all'aria dentro la città e non fa bene all'immagine delle auto.
Quindi è d'accordo con le politiche applicate a Parigi dal sindaco Hidalgo?
Sì, assolutamente. Mia moglie, invece, non è d'accordo e mi accusa di apprezzare la Hidalgo perché ho sempre avuto un autista. Non ce l'ho più. Ma la metropolitana, qui da noi, funziona perfettamente.
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