Se l'auto è l'industria per eccellenza, anzi «l'industria delle industrie» per dirla con le parole dello storico Giuseppe Berta, allora Mirafiori è la Fabbrica, rigorosamente con la "effe" maiuscola. Perché non è un semplice impianto industriale, ma un pezzo di storia, una città nella città, entrata di diritto nell'immaginario collettivo e nelle cronache politiche, sociali ed economiche del nostro Paese: simbolo, nel secondo dopoguerra, della trasformazione industriale, della motorizzazione di massa e della rivoluzione dei costumi. In poche parole,  lo specchio di una nazione in senso positivo – la crescita economica – e negativo – le tensioni sociali e le grandi vertenze sindacali che hanno segnato passaggi importanti dell'Italia moderna.

Si parte da Torino. È da qui che bisogna partire nel nostro viaggio in quel che rimane della grande industria automobilistica nazionale e della sua forza lavoro, quei colletti blu che – è bene rimarcarlo – hanno fatto la Storia, anche questa con l'iniziale rigorosamente maiuscola, del Belpaese. Non se ne può, assolutamente, fare a meno. Mirafiori è oggi lontanissima dai suoi fasti. I suoi 2.700 operai, o giù di lì, non sono neppure confrontabili con i 60 mila e passa un tempo all'opera su icone come la 500. E la produzione attuale, poco sotto le 78 mila unità, è meno di un decimo delle oltre 800 mila del passato. 

È questo il risultato delle politiche industriali della Fiat nel corso dei decenni, del fenomeno della globalizzazione – e dei relativi neologismi in "one", come delocalizzazione ed esternalizzazione, che hanno svuotato molti impianti europei – e, infine, dei cambiamenti epocali nel mondo automotive. E se questo è il passato, il futuro, che preannuncia rivoluzioni ancora più radicali, che cosa ci riserva? Un indizio, si spera non univoco, può venire scendendo lungo la Penisola fino ad arrivare al suo tacco.  

A 860 chilometri da Torino (in linea d'aria, un migliaio in auto), vicino a Bari, c'è una realtà industriale infinitamente più piccola di Mirafiori, ma che all'inizio degli anni 2000 contava su un numero di addetti quasi analogo a quello odierno del gigante addormentato piemontese. A Modugno, la Bosch sfornava a tamburo battente gli iniettori per quel sistema, il common rail, che aveva proiettato i motori a gasolio nell'evo moderno. Proprio "Orecchiette e common rail" avevamo titolato un servizio su Quattroruote di dicembre del 2000, a sottolineare come un territorio noto per tutt'altri motivi celasse fenomeni di avanguardia tecnologica d'inaspettata natura. Ebbene, oggi, a vent'anni di distanza, la Bosch ha annunciato 700 esuberi, circa il 50% dei 1.500 lavoratori della sua fabbrica pugliese, già peraltro scesi di un migliaio di unità dal picco degli anni del boom del "ti-di-ai". Modugno è tra i primi esempi del prezzo da pagare di fronte alla fine di un mondo dominato dai motori endotermici e all'inizio di un altro nel segno dall'elettricità. Che non significa soltanto una nuova forma di propulsione, ma un diverso sistema industriale.

Le chiusure

30 anni di addii. Nell'ultimo trentennio, diversi stabilimenti di automobili hanno chiuso i battenti: nel 1992 l'Autobianchi di Desio e l'impianto di Rivalta (oggi tornato attivo come polo logistico), nel 1993 la Innocenti di Lambrate e nel 2002 l'ex Lancia di Chivasso, già dismessa dalla Fiat 11 anni prima. I casi più traumatici, però, sono stati i più recenti. Nel 2005 si sono fermate le catene di assemblaggio dell'Alfa Romeo di Arese, mentre il 2012 ha sancito l'ennesimo fallimento delle politiche industriali per lo sviluppo del Mezzogiorno: la Fiat ha chiuso la fabbrica siciliana di Termini Imerese, per i costi troppo alti. Gli ultimi cancelli a serrarsi saranno quelli di Grugliasco, alle porte di Torino, ma solo nel 2024.

La paura sulle linee. Con la transizione ecologica, dunque, come cambierà l'industria automobilistica? E in questo scenario, che fine farà Cipputi? L'archetipo dell'operaio metalmeccanico, tratteggiato da Altan, è già passato, nell'ultimo ventennio, attraverso una metamorfosi che ne ha cambiato profondamente i connotati. Ma l'era elettrica potrebbe minarne in qualche modo la stessa esistenza. L'operaio, è ovvio, non sparirà dalle fabbriche. Ma, come la vicenda di Modugno esemplifica, un certo numero di operai probabilmente sì. L'assemblaggio di una vettura a batteria richiede meno lavorazioni e meno parti, soprattutto meno parti. Il che fa capire quale lato della filiera sarà il più colpito: quello a monte, quello dei fornitori. 

Con processi più semplici e meno pezzi, però, si ridimensionerà anche la forza lavoro impiegata direttamente nelle fabbriche di auto? E le nuove figure professionali che vanno emergendo, legate alle tecnologie a servizio dei veicoli elettrici, saranno sufficienti a compensare le perdite della manifattura tradizionale? Staremo a vedere.

In ogni caso, servirà un gigantesco impegno per riqualificare i lavoratori e consentire un ricollocamento di una parte di loro nella produzione di energia o nelle infrastrutture per la ricarica. Dunque, emergeranno nuove figure professionali e, altrettanto sicuramente, si assisterà a un massiccio spostamento di impieghi, anche tra nazioni, se è vero che la Boston Consulting, in una ricerca dedicata all'automotive spagnolo, avverte di una perdita potenziale di 29 mila posti nella penisola iberica e, contestualmente, della creazione di 25 mila nuove posizioni in Germania, per effetto dell'internalizzazione di mansioni perseguita dai tedeschi per controllare parte della filiera più esposta ai cambiamenti tecnologici. In questo quadro, l'Italia rischia di rappresentare il vaso di coccio: secondo la Clepa, l'associazione europea dei fornitori, nel solo settore dei motori, l'occupazione è destinata a passare dai 74 mila lavoratori del 2020 ai 14 mila del 2035, mentre la Germania subirà soltanto un dimezzamento (da 151 mila a 68 mila), la Spagna scenderà da 72 mila a 44 mila e la Francia riscontrerà perfino un aumento da 28 mila a 29 mila, per effetto della decisione della Renault e di Stellantis di portare eventualmente in madre patria diverse produzioni di motori elettrici. A proposito di Stellantis (e non solo), torniamo  sugli impianti italiani.

Campanelli d'allarme

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I casi Bosch e Marelli. La transizione ecologica mette a serio rischio buona parte della filiera automobilistica legata alle forniture di componenti per motori endotermici...

Viaggio nel tempo. Per le fabbriche di auto, va detto, il futuro sembra assai meno cupo di quanto si potrebbe immaginare, quantomeno rispetto a quando se ne paventava la chiusura definitiva. E questo vale anche senza credere alle rassicurazioni dell'amministratore delegato Carlos Tavares sull'intenzione di non chiudere alcun sito, bensì di convertirlo. Oggi Mirafiori sforna non soltanto la Nuova 500, la citycar a batteria da mesi al vertice delle auto più popolari tra le elettriche europee, ma anche la Maserati Levante e, dopo la decisione di concentrarvi anche le produzioni della vicina Grugliasco per creare il Torino Manufacturing District, pure altri due modelli del Tridente, la Ghibli e la Quattroporte. Nel futuro immediato ci sono le ultime generazioni dei modelli del costruttore emiliano, tra cui la berlina destinata a sostituire in un colpo solo proprio Ghibli e Quattroporte, ma anche – prima ancora – le nuove GranTurismo e GranCabrio, pure nella versione elettrica Folgore. Inoltre, sono previsti progetti inediti, principalmente nell'economia circolare, da affiancare al Battery Lab o al polo di engineering globale per l'elettrificazione del gruppo Stellantis. Insomma, tanta carne al fuoco. Certo, bisognerà evitare che l'arrosto si trasformi in fumo, ma di questo dovranno occuparsi, e seriamente, anche le istituzioni locali. 

Ma proseguiamo il nostro viaggio. Lasciamo Torino per percorrere l'autostrada per Milano e fare una breve deviazione a Verrone, dove 500 operai sono attivi nella produzione di cambi (215 mila unità soltanto nel 2021), uno dei segmenti messi più a rischio dalla transizione ecologica, considerato che le elettriche non necessitano delle trasmissioni tradizionali. Da lì, verso la via Emilia, per arrivare dove i sogni diventano realtà, ovvero nella Motor Valley, luogo d'eccellenza legato a filo doppio all'era termica, ma finora al riparo dalla burrasca. 

Stabilimenti e storia

Nella timeline qui sotto, le principali tappe che hanno segnato lo sviluppo dell'industria automobilistica italiana (scorri per vedere tutte le tappe).

L'isola Emilia. Alla Ferrari i record non fanno più notizia, a partire dai volumi produttivi: le oltre 11 mila unità del 2021 sono più del doppio rispetto, per esempio, a certe fasi dell'era Montezemolo. E i 2 mila operai impiegati tra Maranello e la ex Carrozzeria Scaglietti di Modena, assieme a tutti gli altri colleghi (il Cavallino rampante dà lavoro a più di 4.500 persone), ne stanno beneficiando anche dal punto di vista economico: i risultati del 2021 sono stati premiati da un maxi bonus di 12 mila euro per dipendente. Di record se ne intendono anche nella vicina Sant'Agata Bolognese, patria della Lamborghini a trazione tedesca. L'anno scorso, gli 880 operai hanno sfornato 8.300 veicoli e, nel primo trimestre di quest'anno, sono arrivati a 2.500. A qualche decina di chilometri, invece, le prospettive non sono rosee. A Cento, nella sede della VM, oggi Stellantis, i circa 800 operai stanno sudando freddo per colpa di quella demonizzazione del diesel che penalizza gran parte della forza lavoro automotive in Europa. 

Hypercar

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La patria dei sogni. Da decenni, l'Italia è uno scrigno di costruttori capaci di sfornare sportive leggendarie, grazie a innovazione, design, stile e, soprattutto, artigianalità...

Le speranze del sud. Superata Roma, si arriva all'ombra dell'abbazia di Cassino. A Piedimonte San Germano troviamo la casa delle Alfa Romeo Giulia e Stelvio, un impianto all'avanguardia che da anni si trova in difficoltà per gli scarsi successi commerciali dei suoi prodotti di punta. L'anno scorso i poco meno di 3.300 operai hanno prodotto oltre 43.700 veicoli e subito il continuo ricorso alla cassa integrazione. Ora, però, è arrivata la Maserati Grecale e, a breve, ci sarà il restyling dei due modelli del Biscione. Basterà a risollevare le sorti del sito laziale? Vedremo. A non più di cento chilometri si trova Pomigliano, la città un tempo dell'Alfasud e oggi di un impianto in pieno fermento. Per i 4.300 colletti blu si stanno aprendo nuovi orizzonti grazie al ritorno dell'Alfa e a produzioni aggiuntive rispetto alla sempiterna Fiat Panda, già confermata fino al 2026. Un nuovo prodotto affiancherà la Tonale: la Dodge Hornet; conferme ufficiali non ce ne sono, ma si può ormai dare la cosa per certa. Non distante si trova Pratola Serra, la casa dei motori della famiglia Multijet. Per gli oltre 1.780 operai il futuro è già garantito: dovranno occuparsi dei nuovi propulsori omologati Euro 7, destinati a equipaggiare tutti i veicoli commerciali del gruppo Stellantis. E quando si parla di vcl non si può non andare ad Atessa, sede della maggior fabbrica di mezzi da lavoro d'Europa. Da anni, i suoi 5.400 colletti blu tengono alti i numeri dell'automotive italiana. L'anno scorso le catene abruzzesi hanno sfornato oltre 265 mila veicoli tra Fiat Ducato, Peugeot Boxer e Citroën Jumper, mentre in futuro, malgrado la persistente crisi dei chip, non è escluso l'arrivo di analoghi mezzi di altri brand Stellantis. Il tempo darà le opportune risposte.

Non chiuderemo impianti, trasformeremo le produzioni

Carlos Tavares ceo di Stellantis

La prima gigafactory. Riprendendo l'autostrada, bastano pochi chilometri dell'Adriatica per arrivare a Termoli, dove l'anno scorso 2.300 lavoratori hanno prodotto 330 mila motori e 123 mila cambi. Ma non sarà questo il loro futuro. Stellantis, per il tramite della joint venture Acc con Total e Mercedes, intende convertire l'impianto nella sua gigafactory italiana. Per ora poco si sa del progetto, se non gli investimenti per 2,3 miliardi di euro (370 milioni sotto forma di aiuti pubblici) e l'obiettivo di produrre batterie per almeno 40 GWh entro il 2030. In ogni caso, è uno degli esempi più pertinenti di riconversione in linea con la transizione "green". 

Dalla cittadina molisana bastano poco meno di tre ore per giungere nella "nuova" capitale dell'auto italiana, a Melfi, sede del maggior impianto automobilistico del Belpaese. È qui, o meglio nella frazione di San Nicola, che si trova l'ex Sata. Oggi le sue linee sfornano le Fiat 500 X e le Jeep Renegade e Compass, grazie all'opera di seimila colletti blu. Nel 2021 la produzione ha valicato le 190 mila unità, ma la capacità è superiore alle 250 mila. Il futuro? Già segnato: sarà tutto all'insegna del premium. Dal 2024 saranno prodotti quattro modelli a batteria: si parla della riedizione elettrica della Lancia Aurelia, della Opel Insignia e delle DS 9 e DS 7 Sportback. Riusciranno a garantire il domani e salvaguardare l'occupazione? È tutto da dimostrare. Di sicuro, a Melfi, come in qualsiasi altro impianto italiano o europeo, il passato è sempre più lontano e perduto nei libri di storia, ma il futuro non è detto sia solo a tinte fosche.