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Curiosità

Quella volta che...
Serbia, si riparte con la Yugo

Emilio Deleidi
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Quella volta che... - Serbia, si riparte con la Yugo

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Quella volta che... - Serbia, si riparte con la Yugo

Schiaccia, schiaccia di più l’acceleratore. Il tecnico che mi sta a fianco non riesce a dirlo se non nella propria lingua, che non capirò mai, ma il suo gesto con la mano è eloquente. Del resto è serbo, non conosce l’inglese e l’auto che sto guidando è una di quelle che non dimenticherò mai: una Yugo Florida 1.4 Business. Per capirne il signficato, occorre qualche premessa. Il breve test drive si svolge, infatti, a Kragujevac, 140 km da Belgrado, nei dintorni di quella che oggi è una fabbrica della Fiat e che, all’epoca dei fatti, è poco più di un ammasso di macerie. La scena si svolge nella tarda primavera del 2000 (l’articolo apparirà sul numero di luglio di Quattroruote): un anno prima, il 9 e il 12 aprile del ’99, i raid degli aerei della Nato (durati in tutto 78 giorni, tra marzo e giugno) hanno devastato l’impianto, distruggendone le linee di assemblaggio, le stazioni di verniciatura, la centrale termica (che riscaldava anche 20 mila abitazioni della cittadina) e i trasformatori, il cui liquido di raffreddamento, altamente tossico, sparso nel terreno inquina irrimediabilmente la falda. 12 mila persone rimangono, nel giro di pochi giorni, senza lavoro.  Ma tutto il Paese, con strade, ponti, edifici distrutti dalle bombe, è in ginocchio.

Il viaggio. Arrivare a sedermi su quella Yugo, in realtà, non è stato facile. Alla prima richiesta di visto turistico, il consolato di Milano risponde sostanzialmente con una risata: nessuno vuole andare in vacanza nella Serbia di Milosevic, dicci chi sei davvero e che cosa vuoi. A quel punto, mi procuro uno “sponsor” che deve invitarmi: è l’importatore locale della Lada, in ottimi rapporti con quello italiano. Il problema è che arrivo a Belgrado con un visto da giornalista proprio la mattina in cui il governo espelle dalla Serbia tutti i giornalisti… All’inizio mi trattengono in aeroporto, poi mi mandano al ministero dell’Informazione, dove, grazie all’aiuto degli amici della Lada (persone deliziose, che non ringrazierò mai abbastanza), ottengo un documento, in base al quale potrei passare in Serbia il resto dei miei giorni. A patto, però, di presentarmi prima al più vicino ufficio di polizia. E lì sta il trucco, come spiega l’avvocato della Lada: sarà la polizia a espellerti, per motivi di “sicurezza nazionale”, evitando al ministero di fare la figura dei “cattivi” con la stampa internazionale. L’unico modo per restare, quindi, è non presentarsi alle forze dell’ordine, sperando di non essere mai fermato e di non avere problemi alla ripartenza (che non avrò). Ed è così che, dopo un po’ d’incontri a Belgrado e una visita ai ponti distrutti di Novi Sad, mi ritrovo al volante della Yugo.

Caccia ai componenti. Ora, bisogna dire che già di suo la Florida non è un miracolo di automobile. La Zastava, del resto, dopo un momento di prosperità vissuto alla fine degli anni 80, quando era arrivata a produrre 230 mila auto l’anno, metà delle quali destinate al mercato americano (dove colleziona un record di cause da parte di clienti a dir poco insoddisfatti), per lungo tempo ha limitato la sua produzione alla Scala, versione a cinque porte e due volumi della gloriosa Fiat 128, e alla Koral, utilitaria sviluppata all’epoca con l’Innocenti. La Florida 1.4 affidatami è il top della gamma, ma soprattutto ha una caratteristica che la rende unica: è il primo esemplare sfornato dalla fabbrica dopo i bombardamenti. Un gioiello - si fa per dire - costruito facendo i salti mortali per procurarsi i componenti necessari aggirando l’embargo sul commercio con la Serbia imposto dal Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. In che modo, è presto detto. Servono dei lamierati? Li si comprano in Austria o Germania, mentre le vernici si trovano in Italia. Ma, non potendo acquistarli direttamente, i dirigenti della Zastava affidano l’incarico a un’azienda macedone, che poi gira il carico ai serbi. Dopo un po’, però, qualcuno si accorge che in Macedonia non esistono industrie automobilistiche e blocca i carichi. Allora il gioco si ripete con un intermediario di un altro Paese, per esempio la Bosnia. Un lavoro estenuante, che comporta tempi lunghi e costi elevati. Ma che testimonia la caparbia volontà della Zastava di andare avanti, nell’attesa - mi dicono - che passi la nottata e che dell’azienda torni a occuparsi un partner straniero, la Peugeot o, meglio ancora, la Fiat, molto rimpianta (succederà, ma ci vorrà del tempo e dovrà prima cadere Milosevic, col suo regime).

Il test drive. Consapevole del miracolo che costituisce la Florida che sto guidando, passo ovviamente sopra tutti i suoi peccati, affatto veniali: sì, il motore (un 1.400 di derivazione Fiat) ha una (relativa) brillantezza, opportunamente sottolineata a gesti dal mio passeggero, ma lo sterzo è granitico, il cambio di una vaghezza sconcertante, le finiture inclassificabili. Come, del resto, è ingiudicabile tutta quest’auto, se dovessimo applicare i nostri criteri. Ma è come il prodotto di un orto di guerra, certo non il migliore, di sicuro il più prezioso. Capace di funzionare anche con la benzina venduta in bottiglia ai bordi delle strada, ché quella ufficiale delle stazioni di servizio è riservata ai macchinoni degli oligarchi, parcheggiati davanti ai ristoranti e agli alberghi di lusso. È per questo che quella Zastava del 2000, a distanza di vent’anni, mi è rimasta nel cuore. Figlia com’era di gente che non si è voluta arrendere e che al giornalista italiano voleva soprattutto affidare un messaggio: noi resistiamo e non siamo come il nostro governo - diceva - non giudicateci per quello che è lui, ma per quanto siamo noi.