BOLIDE
La rinascita della Viper
La Viper è esagerata in tutto: cofano anteriore lunghissimo, motore V10 di cubatura enorme, tanti cavalli “ignoranti” da scaricare a terra grazie alle ruote posteriori e al cambio manuale. Una “bestia”, un cult yankee con qualcosa delle muscle car, voluta e progettata in un mix unico nientemeno che da sua maestà Carroll Shelby, un signore che, partendo dall’altra parte dell’Oceano, è riuscito a vincere a Le Mans nel 1959 con l’Aston Martin, ed è stato il padre delle AC Cobra, della GT40 e molto altro ancora. L’ha voluta lui, la Viper, così diversa, anche solo per il fatto di non avere nel cofano il “solito” V8.
Iacocca, yes. Marchiata inizialmente Dodge, e spinta dal top manager Lee Iacocca, la Viper sbarca sul mercato giusto trent’anni fa, all’inizio del 1992, sigla RT/10 Roadster. Senza poter vantare, per esempio, la tradizione della mitica Corvette: in ogni caso, la Viper riesce a farsi strada. Noi, però, non vogliamo parlarvi della prima serie, bensì dell’ultima, quella di dieci anni fa, molto meno conosciuta e marchiata SRT.
Seconda vita. Una rinascita inaspettata, quella della Viper nel 2012, perché appena due anni prima, in estate, la supercar era stata “tagliata” dai programmi sull’altare della ristrutturazione post bancarotta della Chrysler. Sembra finita per lei, invece un piccolo gruppo di persone, guidate dal capo del Design della Chrysler, Ralph Gilles, decide di non mollare: lo staff si mette a lavorare di nascosto sugli sketch di una nuova serie, da riportare sulle strade con stile, finiture e dotazioni aggiornati. Il progetto “segreto” riesce, e riceve alla fine l’imprimatur da parte dello stesso Sergio Marchionne, l’allora gran capo di Fiat-Chrysler. Così, la Viper riappare in pedana al Salone di New York, in aprile. Il marchio, nel frattempo, non è più neppure quello Dodge, ma SRT: quest’ultimo, acronimo di Street&Racing Technology, indica una divisione specifica per i modelli ad alte prestazioni, all’epoca parte del Chrysler Group.
Interni più curati. La supercar subisce diversi aggiornamenti, anche nell’abitacolo: seduta abbassata di oltre due centimetri e tetto alzato di poco, per guadagnare un po’ di spazio. L’ambiente, inoltre, si presenta più accogliente, con plastiche morbide e pellami di elevata qualità, frutto della “cura” italiana su uno dei simboli del made in Usa. Esternamente, la Viper cambia un po’, senza modificare le proporzioni e l’immagine iconica del modello. Insomma, è sempre lei, ma il frontale diventa più grintoso, grazie all’introduzione di un generoso splitter inferiore e della presa d’aria maggiorata sul cofano. Ecco, quest’ultimo viene realizzato di carbonio, come il tetto e il baule, mentre per altre parti della carrozzeria, come le porte, si opta per l’alluminio. Il telaio di acciaio e la misura del passo (2,51 metri), rimangono invece inalterati.
Meno peso, più CV. Mettendo in conto anche la “cura” dimagrante applicata al motore (di alluminio), il risparmio di peso totale si aggira sui 50 chili (la massa è di 1.521 kg). Il possente V10 a 90 gradi guadagna qualcosina nella cilindrata, passando da 8.360 a 8.382 cm³ - all’esordio, nel 1992, era di 7.990 cm³ -, mentre la potenza cresce da 612 a 649 cavalli a 6.150 giri. Al di là dei numeri, la Viper migliora pure nell’erogazione della potenza, un dettaglio non da poco considerate le “forze” in gioco, coppia inclusa, che aumenta a sua volta da 760 a 814 Nm. La sportiva yankee si aggiorna anche nelle doti dinamiche, migliorando in fatto di agilità e confermando tutte le emozioni speciali di cui è capace. Sotto il profilo della sicurezza viene introdotto per la prima volta il controllo della stabilità, regolabile su più livelli. Anche la “vipera”, alla fine, si è dovuta adeguare.
Anche lei si arrende ai tempi. Tuttavia, nonostante ottime premesse, le fortune commerciali del modello non sono pari alle attese. Le vendite, infatti, procedono a rilento, la produzione, a tratti, viene ridotta. Fino alla definitiva chiusura della linea, nell’estate del 2017. In un mondo fortemente polarizzato e percorso da crisi cicliche, le topcar premium resistono; per quelle più “abbordabili”, invece, c’è sempre meno spazio.