Anni 20. L’automobilismo sportivo era ancora agli albori. Una ventina di ragazzi inglesi provenienti da famiglie altolocate si appassionò a un marchio, la Bentley, perché creava auto veloci, potenti e praticamente indistruttibili, tanto da essere definite come “i camion più veloci del mondo”. Le compravano per partecipare a gare che venivano organizzate in ogni dove, dal Nord al Sud del Regno Unito, nell’Europa continentale, ma anche negli States. Dandosele sempre di santa ragione con le vetture di altri marchi, quali l'Alfa Romeo o la Bugatti, e sfidando anche altri mezzi di trasporto, come il leggendario Treno Blu, che collegava Calais con la Costa Azzurra. Un luogo, quest'ultima, dove quei ragazzi si ritrovavano spesso per fare festa, perché erano tanto famosi per la loro passione per le corse quanto per i party sfrenati che organizzavano al termine di ogni gara, tra fiumi di Champagne. Erano i Bentley Boys, una generazione di piloti che oggi chiameremmo gentlemen drivers e che all'epoca erano tra i pochissimi in grado di permettersi un’auto sportiva. Con cui correre superando ogni limite.

Ragazzi entrati nella storia delle competizioni, ma anche nella storia stessa del marchio Bentley. Woolf Barnato, Tim Birkin, i fratelli Dunfee e il capitano John Duff, che portò la B alata a trionfare alla 24 Ore di Le Mans. Dopo qualche esperienza nelle corse, nel 1922 il canadese Duff fondò una concessionaria Bentley, la Duff and Aldington, e iniziò a partecipare ad alcune competizioni con la sua auto personale, una 3 Litre Sport totalmente di serie, con motore quattro cilindri a sedici valvole da 70 CV e – curiosità – solo due freni sulle ruote posteriori (nel 1924 arrivarono anche davanti). Iniziò a Brooklands, dove tentò anche di conquistare un record sul “doppio 12”: le gare di 24 ore erano vietate, così si decise di aggirare questa regola unendo due competizioni da 12 ore. Duff sfiorò l’impresa, conquistando otto differenti record di velocità, senza però riuscire a portare a termine l’endurance per via di problemi meccanici. Quella per le gare di durata era più che una fissazione per il capitano dell’Impero britannico, che nel 1923 venne a conoscenza di una nuova corsa di 24 ore che si sarebbe tenuta in un posto sconosciuto in Francia: Le Mans. Duff fu il primo a iscriversi alla competizione, senza il supporto della Casa: Walter Owen Bentley definì quella corsa “una follia” e disse che nessuna automobile sarebbe riuscita a finirla. Ma la determinazione di Duff convinse Bentley a supportarlo: così gli specialisti della B alata si presero cura della sua 3 Litre e il pilota ufficiale della Casa, Frank Clement, fu inviato nella Sarthe. La coppia si mise subito nelle prime posizioni, con Duff che segnò il record sul giro, ma rimase coinvolto in un incidente che gli fece perdere molto tempo: un sasso forò il serbatoio della sua Bentley e, dopo una riparazione in extremis, al traguardo si piazzò al quarto posto. Ciò fece appassionare W.O. Bentley - arrivato all’ultimo momento a Le Mans - a quella folle corsa, che diventò un suo cruccio: nel ’24 la Bentley partecipò ufficialmente alla 24 Ore, che venne vinta proprio da Duff a bordo della sua 3 Litre personale.

Una storia di pura passione, quella del capitano Duff, che ha portato la Bentley 3 Litre a scrivere pagine importanti nella storia delle competizioni. Pur non essendo il modello più carismatico o il più famoso di sempre, quest'auto iconica ha aperto una nuova era, che è poi culminata con altre vetture simbolo per la Casa di Cricklewood (oggi spostatasi a Crewe), come la Birkin Blower e la Speed Six. Vetture che un tempo venivano violentate a velocità folli su strade sterrate e che oggi sono gelosamente custodite nei musei e messe su strada in rarissime occasioni. Come quella – oserei dire più unica che rara - che mi ha concesso la Bentley in occasione del lancio della nuova Flying Spur Hybrid, un modello che riporta un sei cilindri nei listini delle ammiraglie della B alata. Ed è proprio il “sei” il fil rouge che collega la nuova ibrida alla prima Speed Six, che come è facile intuire dal nome era spinta da un sei cilindri in linea. Ho avuto l’onore di assaporare un esemplare del 1929 per qualche decina di chilometri sulle strade di una tanto sperduta quanto esclusiva zona residenziale californiana a pochi chilometri da Santa Barbara, il Toro Canyon Park. Scoprendo emozioni davvero uniche e molto diverse rispetto a quelle di un’altra vettura di quel periodo con cui ho avuto a che fare in passato, l’Alfa Romeo 6C Gran Sport Zagato del Museo di Arese, con la quale ho corso la Mille Miglia del 2014 lasciandovi un pezzo di cuore.

Auto dalla filosofia diametralmente opposta, l’Alfa e la Bentley. Piccola e leggera la prima, possente e massiccia la seconda. Basti pensare che quando ti metti al volante della Speed Six sei più in alto che su una moderna Suv: c’è un gradino che ti aiuta a salire, proprio come sulle fuoristrada più estreme. E stai seduto su poltrone degne di un salotto, rivestite di morbida pelle con finiture impeccabili. Davanti a te c’è un cruscotto molto basso, costellato di decine di leve indicatori necessari per tenere sotto controllo il motore: temperatura dell’olio, dell’acqua, contagiri, manopole per le pompe della benzina… di tutto. Basti pensare che la plancia è così affollata che alcuni comandi, come quelli per il minimo e per la miscela benzina/aria, sono integrati (come si usava un tempo) al centro del volante con finiture di corda: impugnarlo è una sensazione unica, perché il rivestimento non è confortevole, ma pensato per garantire un’ottima presa. Poi alzi lo sguardo e vedi quel cofano lungo, interminabile, che nasconde un sei cilindri in linea.

La scheda tecnica della Speed Six

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Ecco tutti i dettagli, dalla meccanica ai numeri di serie, dell'esemplare del 1929 di proprietà della Bentley

Oggi il blocco di un L6 è lungo poco più di 50 centimetri (miracoli della meccanica), mentre le unità degli anni 20 erano molto più voluminose e totalmente decentrate rispetto all’abitacolo. Questo anche perché Walter Owen Bentley era convinto che la cubatura vincesse su tutto. In anni in cui iniziavano a prendere piede i sistemi di sovralimentazione con compressore, come quello voluto da Tim Birkin sulla “sua” Bentley Blower, il fondatore del marchio britannico non volle complicare i propri propulsori e, per cercare maggiori potenze, ne aumentò la cilindrata. Usando come base il sei cilindri di una 4½ Litre, W.O. fece allargare l’alesaggio di ogni cilindro fino a 100 millimetri, incrementando la corsa fino a ben 140 mm, così da ottenere un aspirato di 6.6 litri da 147 CV con carburatore singolo Smiths a cinque getti, doppio magnete e un rapporto di compressione di 4,4:1. Così nacque la 6½ Litre, il modello che fece da base alla Speed Six. Quest'ultima era la versione più sportiva della sei litri e mezzo, montava un doppio carburatore e aveva delle camme riviste: la versione da corsa - che trionfò a due 24 Ore di Le Mans consecutive (1929 e 1930) e batté il Treno Blu nel 1930 - aveva un rapporto di compressione di 6,1:1 ed era in grado di sviluppare 200 CV. L’esemplare che la Bentley ci ha concesso di utilizzare è una stradale consegnata nel settembre del 1929 con carrozzeria Weymann Saloon, realizzata da Victor Broom, poi restaurata nel 2005 e convertita secondo le specifiche del modello da corsa: eroga 180 CV a 3.500 giri/min e, grazie al suo cambio a quattro rapporti, può toccare una velocità massima di 192 km/h. L’unica concessione moderna è una ventola aggiuntiva per il raffreddamento del radiatore che si può azionare manualmente quando si è fermi ai semafori o in coda (“invenzioni” di un automobilismo molto più moderno rispetto a quello degli anni 20).

Bentley Boy per un giorno

Sono auto fisiche, quelle di quel periodo. Auto che devi comandare, nel vero senso della parola. Auto con le quali non puoi mai permetterti di sbagliare, per non passare in un momento da guidatore a inerme passeggero. Basta un attimo per perdere il momento giusto per la cambiata e finire in folle senza più avere il controllo della trasmissione. Oppure per scordarsi che il pedale centrale è collegato a freni ingegnerizzati quasi cent’anni fa, con tutto quello che ne consegue in termini di sicurezza. Quello che, pur essendo estremamente fisico alle basse andature, trasmette un’ormai introvabile sensazione di “meccanica pura” è lo sterzo, tanto demoltiplicato quanto duro da azionare ad auto ferma. Sensazione che ritrovi nel cambio non sincronizzato, molto più complesso da usare rispetto alle trasmissioni moderne: azzeccare il punto giusto per inserire una marcia non è affatto facile. Soprattutto la capricciosa terza che – mi spiegano – caratterizza questa Speed Six: bisogna innestarla con decisione e fermezza per "trovarla". Sfumature che ti fanno vivere un’esperienza unica su una vettura che – per come si muove tra le curve e per le velocità che raggiunge – sembra aver stretto un patto con il diavolo in stile Dorian Grey, perché tutto diresti di lei tranne che abbia così tanti anni sulle spalle.

Dopo aver vissuto un giorno da Bentley Boy, o quasi, con queste parole ho cercato di descrivere cosa possa voler dire viaggiare su un gioiello come la Speed Six. Quello che non potrò mai trasmettere – né provare, probabilmente – è cosa voglia dire sfrecciare sul Circuit de la Sarthe su un paio di tonnellate di acciaio britannico lanciate a velocità folli come quasi cent’anni fa facevano i Bentley Boys. Quelli veri.