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Endurance vs F.1
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Matteo Valenti
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Si fa presto a dire motorsport. Anche perché il teorema di base è sempre lo stesso. Si prendono delle automobili, possibilmente veloci. Si cercano dei piloti, possibilmente capaci. E poi tutti in pista con un unico obiettivo: vincere, a ogni costo. Quando bisogna passare dalla teoria alla pratica, però, gli esiti possono essere molto differenti. E sconcertanti. Prendete lo scorso weekend, per esempio. A pochi passi dalle onde del mar Mediterraneo, in Costa Azzurra, va in scena il Gran Premio di Francia di Formula 1. Un po’ più a nord, nel cuore della Renania, 150 auto danno vita alla la 24 Ore del Nürburgring. Un grande classico alla tedesca, che ogni anno mobilita qualcosa come 200.000 persone attorno alla Nordschleife, rigorosamente dotati di barbecue inondati da buona birra.

Universi paralleli. Da un lato si assiste alla massima consacrazione del motorsport, con le monoposto ibride più tecnologiche (e costose) di sempre. Dall’altro alla corsa più pazza del mondo, dove se sei al volante di un’Audi R8 GT3 ti ritrovi a sorpassare una Renault Clio e persino… una Opel Manta degli anni ’80.  Due universi paralleli e inconciliabili, ma soprattutto distanti anni luce l’uno dall’altro. Non solo perché, in un caso, la gara dura un giorno interno, mentre nell’altro, se va bene, un paio d’ore (scarse). Ma anche per le caratteristiche dei circuiti in questione. L’Inferno Verde, come lo battezzò Jackie Stewart quando, qui, si correva ancora con le Formula 1, non perdona il minimo errore. Basta una svista, un cordolo preso troppo allegramente o un doppiaggio eseguito con leggerezza per dire addio a quel miraggio chiamato traguardo. Il Paul Ricard, invece, assomiglia a un piazzale su cui dei creativi hanno verniciato un percorso colorato in stile “Saw L’Enigmista”, piuttosto che a un reale circuito. Perlomeno in quest’ultima - psichedelica - configurazione. Al Ring si rischia troppo, dirà qualcuno. Vero, ma dall’altro troppo poco. Fino al punto che (quasi) tutto è concesso, il margine di errore è ridotto al minimo e lo spettacolo, quello con la S maiuscola, latita.

Il sorpasso di Estre e la penalità di Ricciardo. Facciamo qualche esempio. Nella prima parte della 24 Ore Kevin Estre, alla guida della Porsche 911 GT3 R (991 II), acchiappa la Mercedes-AMG GT3 in testa alla corsa. Quindi si inventa un sorpasso impossibile, a una velocità inimmaginabile (oltre 300 orari…), con due ruote sull’erba in un punto che mette i brividi solo a guardarlo. Il pilota francese (neo Campione del Mondo WEC) rischia tutto quello che può, ma si ritaglia un posto speciale nella storia del Green Hell e manda in delirio il pubblico della corsa. Io stesso ho assistito alla manovra dalla sala stampa e vi assicuro che, a confronto, per Roma-Lazio all’Olimpico c’è un atmosfera più compassata. Il Gran Premio di Francia, invece, al di là del risultato (peraltro scontato), non ha di certo scomodato grandi emozioni. E quando le monoposto tagliavano le curve o uscivano dai limiti del tracciato, comodamente asfaltati, sono sicuro che nessuno sentiva di dover dare libero sfogo alle corde vocali per esternare un entusiasmo divenuto ormai irrefrenabile. Peraltro fa sorridere che i piloti (in questo caso Ricciardo) vengano penalizzati a fine gara per essere andati al di là delle linee, quando basterebbe correre su piste che, al posto dell’asfalto dilagante, avessero del prato o della ghiaia come si è sempre fatto. Qualcuno potrà dire che i piloti della Formula 1 di oggi sono sottoposti a velocità e ad accelerazioni spaventose. E che il livello tecnologico raggiunto nel Circus sia effettivamente impressionante. Ma vedere gare dove (quasi) tutto è concesso - il GP di Francia non è l’unico caso - rischia di vanificare gli enormi sforzi per mantenere alto il livello di adrenalina di cui si dovrebbe nutrire questo sport. E di appiattire il livello della sfida, con il risultato che l’abilità di chi si cala nell’abitacolo finisce per fare sempre meno la differenza.

Circuiti meno permissivi per gare più avvincenti. La prova è che quando la Formula 1 approda su circuiti tutt’altro che permissivi, come Spa o Monte Carlo, senza per questo compromettere gli elevatissimi standard di sicurezza raggiunti oggi, le gare tornano ad essere avvincenti. Per il pubblico, ma anche per i piloti. Del resto è stato proprio Lewis Hamilton a dichiarare recentemente che la F.1 avrebbe bisogno di tornare a essere “faticosa”, per rimettere al centro il talento e, perché no, il coraggio di chi si cala nell’abitacolo. E proprio lo scorso weekend il fenomeno della Mercedes ha apertamente fatto riferimento alla Indycar, dicendo che “lì a bordo pista c’è l’erba”, in aperta polemica con il parcheggio-arcobaleno a Le Castellet. L’impressione, dopo aver assistito alla 24 Ore del Ring, è che, ogni tanto, alla F.1 farebbe un gran bene lasciarsi ispirare, almeno un po’, dalla genuinità di altre competizioni. Magari meno blasonate. Ma a volte decisamente più avvincenti. Perché nel piatto ci sarà sempre una bella domenica di motorsport. Ma la ricetta fa una gran bella differenza.