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Dodge Challenger
Al volante della Hellcat

Omar Abu Eideh
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È un caso di nomen omen la Dodge Challenger, la “sfidante” che da mezzo secolo tiene testa a Camaro e Mustang, mostri sacri dell’industria automobilistica a stelle e strisce. Da qualche tempo la partita fra le tre muscle-car per eccellenza si gioca anche al di qua dell’Atlantico. Tuttavia, mentre le proposte di Chevrolet e Ford si sono parzialmente adattate alle esigenze europee - nelle linee quanto nella proposta motoristica, che include propulsori turbo quattro cilindri - la Challenger è rimasta ostinatamente fedele alla sua formula originale. Piaccia o meno. In questo, senza dubbio, è quella con più carattere del trio.

La nipote del Generale Lee. I tratti somatici della Dodge Challenger non mentono: sono ancora gli stessi della Dodge Charger del 69, protagonista dei folli inseguimenti in “The Dukes of Hazzard”. Col mitico Generale Lee la vettura condivide il design dei lunghissimi cofani anteriore e posteriore, il montante posteriore palestratissimo e la nervatura sulla fiancata, che si impenna quasi in corrispondenza del passaruota posteriore. E che dire della fanaleria? Gli occhi sono quelli della nonna, e non mentono. Non c’è spazio per gentilezze stilistiche come la coda fastback della Mustang, né per le deviazioni dal tema primigenio, come il frontale dell’ultima Camaro: sulle Challenger le linee sono tese, nette e spezzate. Lei è fieramente così, cruda e rude. E questa determinazione ha il suo prezzo: un abitacolo che nella zona posteriore sembra più angusto rispetto a quello delle rivali; il che è paradossale per un’auto lunga 5 metri.

Downsizing, questo sconosciuto. L’offerta motoristica della Challenger è quasi uno statement: qui il motore più “piccolo” è un V6 di 3.6 litri e oltre 310 CV di potenza. Così, tanto per gradire. Niente turbo, niente sofisticate strategie elettroniche di funzionamento per risparmiare carburante. Ma per l’utenza italiana, che fa i conti con la bruttura del superbollo, c’è pure la versione al valium, con 250 CV. Se invece non spaventa diventare fra i migliori amici dell’agenzia delle entrate (e dei benzinai), la scelta deve obbligatoriamente cadere sulle tradizionali edizioni con motore V8, quelle “vere”, con l’America nel monoblocco: fra queste spicca la SRT Hellcat, un no-sense su quattro ruote con dei numeri da paura. Nel vano motore è stato incatenato un folle V8 Hemi da 6.2 litri, sovralimentato, che sprigiona qualcosa come 717 CV e 881 Nm di coppia massima. Non serve aggiungere altro.

Un assaggio di Hulk. Un giro a bordo di questo mostro ce l’ha concesso la KWA, il nuovo importatore della Ram 1500 in Europa. Il primo impatto con la Hellcat è certamente quello sonoro. Come diamine hanno fatto a omologarla? Il sound è davvero infernale da fuori: il preludio lo regala il compressore volumetrico che inghiotte litri e litri d’aria, poi arriva il bang subsonico degli scarichi. Una sinfonia a otto cilindri che è proprio come te l’aspetti, esageratamente rumorosa, quasi violenta quando ci si avvicina alla zona rossa del contagiri e condita da sonori scoppi in rilascio. Basta già questo per innamorarsi dell’auto, senza nemmeno mettersi al volante peraltro. Una volta nell’abitacolo, un veloce colpo d’occhio lo merita la plancia, dove spicca l’infotainment con trouchscreen da 8,4” della divisione americana di FCA: la qualità realizzativa complessiva è discreta, ma nulla più. Le regolazioni di piantone e sedile permettono di cucirci addosso il posto guida, con la seduta comoda e contenitiva.

Al volante ti senti Bruce Willis. Il tracciatino di prova dove ci viene lasciata la Hellcat, nei pressi di Stoccolma, le sta proprio stretto: per scatenare a pieno il suo V8 servirebbero ben altri rettilinei. Se non altro ci viene consentito di guidarla con i controlli elettronici spenti. Alla prima accelerata la Dodge manifesta le sue intenzioni bellicose e fa subito fumare i pneumatici posteriori. Un monito che ricorda al pilota quanto su questo mezzo l’acceleratore vada dosato con perizia. Alla prima curva ad ampio raggio, con lo sterzo quasi dritto e col punto di corda alle spalle, metto il gas a tavoletta e… eccola lì la coda che inizia ad allargare. Eppure la transizione dall’assetto stabilizzato al sovrasterzo è relativamente amichevole e facilmente gestibile: sulle curve più lente, però, il gioco cambia parecchio e bisogna essere pronti col controsterzo. Recuperata trazione, la progressione è schiacciante, assecondata dall’ottimo automatico ZF a 8 marce.

Non concede sconti. L’avantreno, su cui grava il 57% della massa, è incisivo e ispira fiducia tanto quanto l’impianto frenante griffato Brembo. Guidando col dovuto garbo, la Hellcat sa essere anche efficace, nonostante la mole di oltre 2 tonnellate e la distribuzione dei pesi non equilibratissima: il problema è che ci si ritrova presto a strafare col pedale dell’acceleratore per dilettarsi nel gestire un retrotreno che vorrebbe prendere a calci nel sedere il mondo intero. Un’esperienza esaltante e terrificante allo stesso tempo. La Hellcat è così, pazza esattamente come la si immagina che sia e per nulla incline a fare sconti: concede tanto, a patto che si rispetti la sua incontenibile personalità (o la si guidi con gli aiuti elettronici sempre inseriti). Per averla servono poco meno di 80 mila euro, ma ne bastano la metà se si ripiega sulla V6. Avendo la possibilità, però, la scelta è obbligata.