Non è questione di chilometri o di miglia. Che siano le 500 di Indianapolis o le 1000 su e giù dallo Stivale. In questo caso si tratta del tempo: che è galantuomo. Ferrari diceva più o meno la stessa cosa, di questa gara che è la Le Mans, ma con altre parole: “È la corsa della verità”.
Ma che cos’è, la verità? È quella cosa che vien fuori come vuole, nonostante i piani, le notti in bianco a organizzare, i sogni e le promesse. Insomma, è la vita. O meglio, il risultato di una vita. Col suo corredo di fortune sfacciate, sfortune dannate, docce fredde e pacche sulle spalle. C’è chi vive anche 100 anni; a Le Mans, invece, si vive 24 ore, una volta all’anno. E così, il giorno dopo, ti ritrovi gli stessi piloti, ma mai tutti. E quel traguardo che ieri li aveva visti scattanti, adesso li trova grondanti, festanti, coi segni del loro vissuto in faccia. E sul muso (delle macchine). Felici, nonostante tutto: pioggia, sole, sonno bestia e freddo cane inclusi.

Ma perché? Tutto nacque 101 anni fa, con l’idea di mettere alla prova l’affidabilità delle neonate automobili. Niente di più di una sfida meccanica, insomma. Almeno secondo lo sciovinismo francese, del pensare sempre di essere l’ombelico del mondo. In realtà questo girare intorno senza fine, alla ricerca dei propri limiti, delle proprie qualità, della propria forza, insomma, di sé stessi, c’era chi lo faceva da sempre come i dervisci che si dicono rotanti non a caso. Trottole umane, eterni bambini presi in un giro girotondo di 800 anni. Insomma stacanovisti della catalessi, che sognano di risvegliarsi nella luce… Come quella del giorno dopo. Che a ogni latitudine, sa sempre di "ce l’ho fatta, sono ancora qui".

A onor del vero le endurance automobilistiche nacquero dall’altra parte dell’oceano. Ma fu il genius loci (la vocazione che hanno i posti di diventar habitat di qualcosa), che fece sbocciare in quest’angolo di Francia, nel continente dei piloti, la Le Mans. E così quella che doveva essere una sfida alla tecnica, si trasformò via via nell’avventura motoristica per eccellenza. Il trionfo arrivò per selezione naturale: quando cioè, l’estinzione della specie vide scomparire anche le gare rivali, come la “corsa più bella del mondo”, la 1000 Miglia (l’endurance stradale per eccellenza finita nel 1957). Nel cuore degli appassionati, per un po’ poté la Formula 1, almeno finché da circo itinerante non diventò fenomeno da baraccone. E non più da concessionario. Mi spiego: a nessuno viene in mente di comprare un elefante, anche dopo averlo visto suonare la tromba insieme ai clown il giorno prima. Stirling Moss, nel suo libro “Le Mans ‘59”, lo dice anche meglio e fuor di metafora: “Dopo le vittorie sul circuito di Le Mans le vendite di Jaguar nel mondo erano schizzate alle stelle”. La verità? È il mercato, bellezza. Del resto non è un caso che l’anno scorso Ferrari sia tornata, per vincere, l’edizione del centenario (come non lo è che insieme a lei, siano ricomparsi marchi che da queste parti non si vedevano da un po’).
Per la gioia dei piloti. Perché i piloti è gente che ama la Le Mans. Le sue 24 ore di guida, di luci, di ombre. Di buio oltre la siepe. Che all’alba di un nuovo giorno taglia il traguardo, trovando la risposta alla domanda di tutti. Che non è “dove mi trovo?”, che dopo aver girato intorno per così tanto ormai l’hai imparato a memoria. Ma è il “chi sono?”. E questa roba qui, te la sai dire solo tu, come direbbe Ligabue, “certe notti, macchina calda…”.
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