Pilota, team manager, collezionista di cimeli Ferrari e molto altro. Jacques Swaters è nato a pochi chilometri da Bruxelles il 30 ottobre del 1926 ed è stato uno dei più importanti personaggi dell'automobilismo sportivo del ventesimo secolo: tra le altre cose, ha creato la Scuderia Francorchamps, l'omonimo Garage e il primo museo dedicato alle sportive di Maranello, noto come "the Bunker". Per riassumere l'importanza che il belga ebbe nella storia del Cavallino Rampante, basta tornare alla presentazione della 456 GT, caratterizzata da un colore a lui ispirato, il Blu Swaters, e svelata in anteprima mondiale presso il Garage Francorchamps (e non in un classico Salone internazionale). L'intervista a Swaters, firmata da Stany Meurer, è apparsa su Quattroruote di ottobre 2003, sette anni prima della morte del grande collezionista.
A 77 anni Jacques Swaters è un uomo appagato (anche se l’età l’ha messo su una sedia a rotelle). Le Rosse gli hanno dato tutto: gioia, amore, denaro… In carriera, infatti, ne ha vendute ben 3.500. Oggi, al piano interrato del Garage Francorchamps, in Belgio, primo importatore al mondo di vetture del Cavallino, Swaters si augura di avere ancora quarant’anni davanti per fare ordine tra i suoi straordinari cimeli. Siamo andati a trovarlo.
Che rapporto aveva Enzo Ferrari con i rivenditori?
Nessuno. Per lui, vendere i modelli stradali aveva un unico scopo: rimpinguare le casse per poter correre. Stimava, però, molto l’importatore che si occupava degli Stati Uniti, Luigi Chinetti. Con me ha stretto ottimi rapporti dall’inizio degli anni 60 e verso la fine della sua vita è stato molto vicino a Daniel Marin, direttore di Ferrari Francia.
E con i clienti?
La maggior parte non li vedeva mai. Adorava invece incontrare i personaggi famosi, le star dello spettacolo e i membri delle famiglie reali. Con loro, sì, era molto affabile e mostrava tutto il suo charme. Avreste dovuto vedere come gongolava quando portava Ingrid Bergman a cena da Fini, a Modena.
Come si comportava con i concorrenti?
Li disprezzava. Si sentiva superiore e non faceva nulla per nasconderlo. Era così orgoglioso che avrebbe preferito morire piuttosto che informarsi direttamente su ciò che facevano. Preferiva che fossero gli altri a parlargliene, mettendoli sotto pressione. Quando la Maserati realizzava un’auto migliore delle sue, ci stava male, ma mai e poi mai sarebbe stato disposto ad ammetterlo.
È vero che si divertiva a mettere i piloti l’uno contro l’altro?
No, è falso. Furono alcuni piloti a mettere in giro questa voce. Enzo Ferrari adorava piloti della tempra di Nuvolari, Villeneuve e Mairesse. O quelli come Stirling Moss, che non è mai riuscito a ingaggiare: e pensare che c’era quasi riuscito, il giorno prima dell’incidente. Per i pavidi non aveva alcun rispetto, come pure per quelli di seconda categoria, le «braccia corte», li chiamava lui. Erano questi ad alimentare certe dicerie. Non posso far nomi, perché tra questi ci sono anche alcuni campioni del mondo.
Con i giornalisti non erano tutte rose e fiori…
Non gli piacevano, ma se ne serviva quando ne aveva bisogno. Li considerava delle sgualdrine pronte a vendersi per un pezzetto di carta. Quando gliene capitava l’occasione, con loro era spietato.
E papà Enzo com’era con il figlio Dino?
Era un rapporto molto strano. Faceva finta di andar pazzo per suo figlio, un giovane piuttosto banale che non è mai diventato ingegnere come voleva il padre. Un ragazzo molto gentile, ma a mio avviso insignificante. Nei suoi confronti, il padre ha recitato il suo ruolo fino alla fine, poi lo ha idealizzato.
Sta dicendo che Ferrari era un buon attore?
Uno splendido attore: riusciva persino a piangere nel momento più opportuno! L’ho visto tirare fuori il fazzoletto e asciugarsi le lacrime per cose di cui non gl’importava affatto.
In azienda si comportava da dittatore?
A differenza di molti dirigenti di oggi, Ferrari sapeva ascoltare. Prima di una decisione importante prendeva nota delle opinioni altrui. Poi assumeva il tono più severo di cui era capace e annunciava: «Ho deciso che faremo un 4 cilindri». Ma non aveva deciso un bel niente, aveva semplicemente tirato le somme di tutto ciò che gli era stato detto.
Riconosceva i propri errori?
Era un uomo giusto, ma poteva rivelarsi anche un modello di malafede. Se sbagliava, lo ammetteva, però a modo suo. Mi sembra ancora di sentirlo quando diceva: «Ci siamo sbagliati».
Serbava rancore?
No, ma aveva una memoria di ferro. Da buon opportunista, se valutava che potesse tornargli utile mettere una pietra sopra al problema, lo faceva senza esitare.
Era avaro?
Finché gli sono mancati i soldi, molto. Poi è diventato generosissimo: ha aiutato diverse persone ed elargito generose donazioni a fondazioni e istituti caritatevoli. Un aspetto che non è mai stato messo abbastanza in luce.
Qual è stato il periodo chiave nella storia della Ferrari?
La seconda metà degli anni 50. È stato allora che Enzo Ferrari ha perso il figlio Dino. Era l’epoca in cui si è passati dallo sport nudo e puro all’era industriale con l’avvento della «250 GT», che, fruttandogli un patrimonio, gli ha risolto di colpo qualsiasi problema finanziario. Quegli anni hanno anche segnato l’inizio del suo rapporto con Pininfarina. A tal proposito, mi pare doveroso sottolineare che il successo delle Rosse è dovuto per almeno il 50% all’opera di Pininfarina. Fino ad allora la Ferrari era innanzitutto un motore. In quel periodo si è scoperta l’importanza del ruolo del telaio e dei suoi componenti.
Signor Swaters, da dove nasce il suo amore per le corse automobilistiche?
Nel ’46 avevo vent’anni ed ero appena stato congedato dall’esercito. Era la fine di un’epoca difficile. Ero fuori fase e avevo bisogno di qualcosa di violento per esprimermi.
Quando i primi contatti con la Ferrari?
Nel 1948 ho corso la 24 Ore di Spa, la mia prima gara automobilistica, su una piccola MG d’anteguerra. Durante le prove, Luigi Chinetti mi ha superato con un bolide che emetteva un rombo semplicemente straordinario, una vera melodia. Di ritorno ai box, mi sono affrettato ad andare a vedere che cosa aveva prodotto quel suono. E così ho visto la mia prima Ferrari. Fu uno shock. Me ne sono innamorato subito pazzamente, proprio come ci si innamora di una donna a quindici o sedici anni. Non ho mai dimenticato quel primo incontro. E sono sempre stato fedele alla Ferrari.
E così è nato il Garage Francorchamps...
Non esattamente, in realtà è nato cinquant’anni fa, nel 1953. Ma già qualche mese prima avevo venduto una Ferrari «212 Inter».
Le cose non sono sempre state facili...
Ho avuto un periodo di vacche magre fino all’inizio degli anni 70 e sono stato diverse volte sull’orlo del fallimento. Per fortuna, alcuni piccoli miracoli mi hanno salvato. Ve ne racconto uno. Alla fine della stagione ’67, cercavo invano di vendere la mia «412 P» telaio 0850. All’epoca le vecchie Ferrari da corsa non erano ricercate come oggi. I mesi passano, un giorno ricevo una telefonata dal cantante Dean Martin. Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui è piombato in officina. Era letteralmente ammutolito dalla bellezza dell’auto ed era deciso ad averla. A due condizioni però: che ci installassi l’aria condizionata e che sostituissi il motore originale con un V8 Chevrolet. Anche se avevo bisogno di soldi, gli ho detto di no. Offeso, Dean Martin ha fatto per andarsene. Alla fine, però, l’ha comprata lo stesso. Ha sborsato 20.000 dollari, una fortuna per l’epoca, e con quella cifra il Garage ha potuto tirare avanti ancora per qualche mese. Naturalmente, appena tornato in California, Dean Martin ha fatto apportare immediatamente le modifiche per le quali avevo opposto il mio rifiuto…
In qualche modo, quindi, la sua collezione è da imputare alla mancanza di soldi?
Non potendo permettermi le vetture, mi sono dedicato a collezionare carte, documenti e oggetti Ferrari. Ho sempre avuto l’animo del collezionista. Per cui, non appena mi è venuta la passione per le Ferrari, ho cominciato a raccogliere tutto ciò che avesse a che fare col Cavallino. Quando ho ricostruito il Garage, una decina di anni fa, ho deciso di destinare un’ala dell’edificio a galleria riservata alla mia collezione.
Si dice che molti dei documenti ora nelle sue mani provengano direttamente dalla casa del Drake. È vero?
Sì. Enzo Ferrari non conservava nulla. Era solito dire: «Quello che ho fatto ieri non mi interessa più; ciò che mi interessa è quello che farò domani». Buttava via di tutto: lettere, documenti, piani, disegni, strumenti e persino modellini e stampi di automobili. Avrei dovuto dedicarmi con più metodo alle pattumiere di Maranello... Laggiù c’erano tesori inestimabili. Un altro periodo d’oro per la raccolta fu dopo la morte del Commendatore. Le giovani leve giunte a Maranello in quegli anni concordavano su un fatto: la vecchia Ferrari non li interessava, bisognava salvare solo gli ultimi dieci anni e mettere una croce sopra tutto il resto. Così dettero vita a un enorme repulisti. Molte Case come Alfa Romeo, Mercedes e Renault hanno musei magnifici, perché, da sempre, i loro dirigenti si interessano al passato. In casa Ferrari nessuno se n’è mai preoccupato fino a due o tre anni fa. Ma è un po’ tardi, ormai non resta più niente!
L’arrivo di nuovi proprietari in Bugatti, Lamborghini, Aston Martin e Jaguar pone problemi d’identità a questi marchi storici?
Bisogna essere realisti. Pur avendo nostalgia per l’ancien régime, devo riconoscere che oggi non c’è più posto per l’artigianato, l’individualismo, l’avventura umana. Il progresso è fatale e ineluttabile. Se la Jaguar è morta ed è diventata Ford, è una buona cosa per la sopravvivenza dell’azienda. La Ferrari ha ancora la possibilità di continuare a farcela da sola per qualche anno. Poi bisognerà stare attenti che non scompaia come ha fatto a suo tempo la Bugatti. La sua autonomia ha i giorni contati. Cito l’esempio di Charles Lindbergh, che nel 1927 attraversò l’Atlantico da solo in 33 ore e mezza a bordo dello «Spirit of Saint Louis», con un carico di carburante, un piccolo thermos di caffè e tre panini. Quell’impresa è soltanto sua; sua e di nessun altro. Una quarantina d’anni dopo, Neil Armstrong e Buzz Aldrin hanno camminato sulla Luna: hanno spinto tre pulsanti e un esercito di 150.000 ingegneri ha fatto il resto. È impossibile mettere a confronto questi due exploit. Così come è impossibile fare un paragone tra Schumacher e Nuvolari. Sono entrambi piloti eccezionali, al di sopra di tutti i contemporanei. Ma non credo che le vittorie di Schumacher siano dovute per il 90% al suo talento alla guida, mentre nel caso di Nuvolari non esito a portare questa percentuale al 99%.
Qual è, secondo lei, la Rossa più bella?
La «P4» è il top dell’arte Ferrari. Coincide con la fine del periodo sentimentale e l’inizio dell’era industriale. È la fine di Lindbergh e l’inizio di Armstrong, il declino dei mecenati e l’affermazione degli sponsor, major del tabacco in testa. Ferrari li detestava. Per niente al mondo avrebbe voluto che una delle sue auto portasse un marchio di sigarette. Diceva: «Le mie macchine non fumano».
Quale altra vettura poteva competere con il fascino di una Ferrari?
Parecchie: le Aston Martin, le Mercedes, le AC Cobra, le Lamborghini, le Facel-Vega, ma soprattutto le Maserati, spesso superiori alle Ferrari sia su strada sia in pista. La differenza sta, però, nella longevità. Fin dal dopoguerra c’è sempre stata la Ferrari e solo dopo le altre, di tanto in tanto. Le Rosse non saranno forse le macchine più belle, ma sono certo le più significative. Dalla loro carrozzeria sprizza una fortissima carica emotiva, merito della personalità di Enzo Ferrari, del suo accanimento e della sua volontà. Per tutta la vita, ha seguito una linea retta segnata solo da tre elementi. Nell’ordine: automobili, donne e buon cibo… rigorosamente italiano.
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