Tutti pensiamo che sia così. Ma non è vero niente. Diciamolo: Filippo Tommaso Marinetti è un millantatore. E tutti i libri di storia raccontano delle gran balle. Perché è facile attribuire a uno che vive nella Milano dei primi del ‘900 la paternità di quello che, più che un movimento culturale, è uno stato dell’anima, anzi no, un moto (e che moto!) dello spirito. La verità è che il futurismo, a voler essere onesti, non è nato all’ombra della Madonnina in quel lontano 1909. Ma tre anni prima, sotto il sole della Sicilia. Grazie a Vincenzo Florio: l’uomo che si (auto) dedicò una Targa.
Una visione diversa. Magna Grecia che fu, ombelico del Mare Nostrum quanto vuoi, la Sicilia di più di un secolo fa, tutto poteva ispirare fuorché una gara di velocità. Eppure Vincenzo Florio, detto Junior perché in famiglia andava distinto dal nonno senatore del Regno, guardando quelle strade sterrate punteggiate dai fichi d’India vedeva chicane… Colpo di sole o di genio?
Il nome. In realtà, la domanda giusta è un’altra: chi era costui? Vincenzo, nella Sicilia dei gattopardi, è la massima evoluzione della specie, una sorta di ultimo modello, una splendida final edition di quel mondo che fu. Fatto di nobiltà dal respiro internazionale e di sicilianità autentica, splendido condensato di memorie, decadute e decadenti. Vincenzo era il rampollo di una famiglia che non aveva lo stemma araldico sulla facciata del palazzo, ma il cognome sulle etichette di un Marsala bevuto in tutto il mondo. Che, tra l’altro, campeggiava anche sulle navi della flotta mercantile e su una serie di attività varie e eventuali (tonnare comprese). Insomma, Vincenzo uomo nuovo. Futurista per vocazione, vive in una modernità che se non c’è, bisogna inventarsela. La sua dote? Saper unire i puntini: la passione per le corse, i suoi bastimenti che si possono riempire di auto e piloti e quelle montagne alle porte di Palermo, che sembrano fatte apposta per mettere alla prova genti e motori.
Le origini del mito. E così, le Madonie su cui prima osavano solo i carretti, si trasformano nel prototipo della gara ideale. Sì, perché quel tracciato mette insieme velocità, durata e avventura. La formula è vincente, a tal punto che qui ci vengono a correre tutti. Ma proprio tutti: anche gente che da grande avrebbe firmato bolidi e ammiraglie, come Enzo Ferrari e Vincenzo Lancia. Gente che i locali han visto correre sotto le mentite spoglie di piloti, coperti di polvere.
L'essenza della gara. Il testamento morale di Florio, “continuate la mia opera perché l’ho creata per sfidare il tempo”, viene citato, anche recitato, come si fa con una poesia. O un salmo religioso. Ma il rischio è non capire veramente cosa volesse dire. Perché in realtà il suo lascito non è un invito a proseguire una gara di “cancelli”, più o meno arrugginiti, ma un inno futurista al progresso, all’inventiva, alla sperimentazione. Anzi, di più: alla passione per la velocità. E non tanto delle macchine, ma del pensiero, delle decisioni, del dire “sì dai, facciamolo”. Cambiamenti, non regolamenti. Automobilismo versus immobilismo: questa fu la risposta di Vincenzo. Che aveva capito una cosa: la vita è una sfida contro il tempo. Il proprio. E se vai piano, sei lento o dormi, bello mio, l’hai già persa in partenza.
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