“Chiamo al telefono D. dopo molti sforzi per non farlo. Odo la sua voce bassa, cupa. Stacco il ricevitore. È come se avessi preso un fernet. L’antipatia che ho per lui mi rinfranca”. È proprio come dimostra Leo Longanesi: se non ci fosse la voce, bisognerebbe chiamarla. Perché mai come in questi anni 20 di messaggi scritti, letti e equivocati su WhatsApp & Co, Archimede avrebbe detto “datemi un’inflessione, che vi spiegherò il mondo”. Come dimostra la necessità di usare quei surrogati espressivi che sono gli emoticon: per rendere chiare parole equivoche (se non spiegate a voce). Icone che ridanno allo scritto un volto umano.
Mentre in tutto il mondo il 16 aprile si celebra una giornata per accendere i riflettori sull’importanza della voce, della sua conservazione, della sua cura, insomma della sua salute, io vorrei fare un appello perché si desse voce anche ad altre cose. No anzi, proprio alle cose. E mi spiego.
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, la voce è sicuramente quello dello spirito. Non a caso si dice: "Ti sento stanco, arrabbiato, distante...". Certe cose che si capiscono al primo ascolto: "Che brutta voce che hai! Stai male?". Ma non sono solo le persone, ad avere una voce. Ce l’hanno anche le case vuote, con quell’eco straziante che grida vendetta per il trasloco dell’ultimo inquilino. O il motore della tua macchina. Che è capace di parlare, a chi la sa ascoltare, e dirgli se va tutto bene. O se oggi gli girano i pistoni.
Perché se l’occhio vuole la sua parte, e quando non la trova se la inventa (graffiti, quadri e foto nascono proprio per questo), la voce, be', quella rimane sempre un’esperienza da presa diretta (nonostante tutti i registratori del mondo). Perché quella di una sirena della contraerea, di voce appunto, non dice la stessa cosa a chi non la sente in guerra. O un 12 cilindri che canta sullo schermo ultrapiatto in salotto, non dà le palpitazioni che avresti sul rettilineo di Monza.
E arrivo al punto. Con la rivoluzione della mobilità alle porte, alla generazione che è cresciuta con la voce della macchina della mamma, o del papà, o del proprio motorino, il mutismo dell’elettrica farà mancare qualcosa. Un’esperienza, sicuramente un ricordo. Che lo scrittore Francis Scott Fitzgerald descrive benissimo: "Era il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato".
E qui potrebbe venire lo sconforto, come di fronte a un burrone. Dico potrebbe. Perché in realtà il mondo è fatto per andare avanti, e l’uomo per adattarsi. Si chiama evoluzione della specie, e vuol dire apprezzare cose che per la generazione precedente erano ancora fuori dai radar. Come non avessero ancora voce, appunto. E così, immaginando i prossimi anni di schilometrate silenziose, ripensando alle parole dell’editore Valentino Bompiani, ci tornerà il sorriso che pensavamo perduto. Perché "il silenzio è la voce di un altro alfabeto che ci parla dentro".
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