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Cronaca

Milano
Bici e bike lane, la roulette russa quotidiana

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Un equivoco presuppone buona fede; nel caso della bike lane chiamate impropriamente dai politici a ogni inaugurazione - e con vanto - piste ciclabili, invece, sarebbe ora di fare chiarezza. E, soprattutto, di aprire gli occhi. Le centinaia di metri di strisce di vernice pittate a Milano per dare strada alla cosiddetta mobilità dolce - in condivisione scellerata col resto del traffico, anche a contatto di gomito con i mezzi pesanti e quelli del trasporto pubblico - oltre ad avere penalizzato la viabilità come previsto dal progetto originale (dove prima occorrevano 20 minuti per raggiungere la meta ora ne occorrono più di 30), hanno trasformato le strade cittadine in una sorta di videogame atroce e senza regole: stressante e pericolosissimo. Tra modifiche stradali studiate per penalizzare sistematicamente l’automobile, bici e monopattini introdotti a sciami che spuntano da ogni angolo, lasciati liberi di passare col rosso come di prodursi in qualsiasi tipo di manovra irregolare, contromano compresi, e raider del delivery ricattati da un algoritmo che li spinge a commettere infrazioni di ogni tipo per non perdere il lavoro (dal tramonto, il 90% senza luci, e senza che nessuno abbia niente da dire), per il numero di rischi che si corrono, come le cronache e la crescita verticale degli incidenti dimostrano, sarebbe un brutto videogioco da vietare almeno ai minori. Quelli che vediamo impunemente in due sui traballanti monopattini in sharing, per esempio, anche davanti agli occhi di operatori alla sicurezza che voltano la testa dall’altra parte. Nel 2022, a Milano sono stati fatti 1258 controlli tra monopattini e bici: 5 le sanzioni elevate.

Cantieri e vernice. L’annunciata "rivoluzione della mobilità" sotto il Duomo è, a dir poco, un’ipocrisia. In una città costantemente cantierizzata e che per questo mette a contatto di gomito mezzi pesanti e ciclisti dividendoli con una linea impalpabile come quella gialla, che indica una bike lane stabilmente invasa da centinaia di furgoni, quelli che dall’esplosione dell’e-commerce esercitano a cavallo della corsia e occupano tutti gli angoli degli incroci (ancora, senza che nessuno batta ciglio); in una metropoli dove la percentuale di persone che necessitano ogni giorno di mobilità alla voce ciclisti tocca a stento il 4%, checché ne dica la propaganda istituzionale, quanto messo in scena è la peggiore pubblicità che si possa fare per convincere qualcuno ad abbandonare l’auto a favore delle pedivelle, obiettivo dichiarato della giunta in carica e da quella che l’ha preceduta. Per crescere davvero le due ruote necessiterebbero di tracciati in trincea, di percorsi fisicamente separati dal resto del traffico e, se possibile, di sensi unici tangenziali riservati. Accettare di stare a contatto con betoniere e automezzi di varie dimensioni con l’obiettivo di “riprendersi la strada”, scalzando un po’ alla volta il traffico veicolare è pura demagogia. Che qualcosa non funzioni cominciano a capirlo anche i ciclisti, quelli dotati di fisico bestiale e spirito da guerriero, virtù necessarie per partecipare alla sfida proposta a Milano con la formula del “tutti contro tutti”. Roba, l’accettazione della pericolosa promiscuità proposta, da rispedire al mittente, assieme alle contravvenzioni che vengono elevate a entrambe le parti in caso di incidente: quel che occorre per scaricare ogni tipo di responsabilità sempre e solo su chi, suo malgrado, rimane coinvolto. A determinare i sinistri, in molte occasioni sono proprio le deliranti soluzioni adottate. In qualche associazione di ciclisti, presidenti senza paraocchi cominciano a parlarne, ma i nodi creati nel frattempo sono tanti che sembrano aver già consumato il pettine.

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