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Le grandi interviste
Giotto Bizzarrini: 'Sono sempre stato un collaudatore'

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La rassegna Le grandi interviste prosegue con la pubblicazione del colloquio con l'ingegner Giotto Bizzarrini, fondatore del marchio omonimo e padre di leggendarie sportive del passato, come le Ferrari 250 GTO e Testa Rossa. Nato il 6 giugno del 1926 a Quercianella, in provincia di Livorno, studia ingegneria a Pisa. Dopo la laurea, inizia a lavorare al reparto Sperimentazione dell’Alfa Romeo. Nel 1957 passa alla Ferrari, dove diventa capo di Collaudi ed esperienze. Negli anni 60 lavora come progettista consulente per molte Case italiane e diventa imprenditore in proprio, producendo GT leggendarie. Fino a pochi anni fa è stato professore universitario. L’intervista è stata realizzata a Livorno da Gian Luca Pellegrini ed è apparsa per la prima volta sul volume "Quattroruote - profili di eccellenza", pubblicato nel gennaio del 2012.



Dicevano i latini che il destino è scritto nel nome. E Giotto Bizzarrini, classe 1926, è la prova provata che i nostri antenati avevano ragione: livornese di Quercianella, paese dove ancora oggi abita e al quale per tutta la carriera è rimasto legato, è stato il più famoso ingegnere-collaudatore italiano tra gli anni 50 e i primi anni 80. Sue sono le Ferrari che hanno fatto la storia dell’automobile: per citare soltanto le più leggendarie, le 250 (GTO compresa) e Testa Rossa (la prima). Ma suoi sono anche una valanga di motori da competizione e altrettante unità plurifrazionate, come il 12 cilindri Lamborghini. E le macchine che portano il suo nome sono sempre state delle rarità di valore collezionistico inestimabile: basti dire che oggi tutte le 115 Bizzarrini 5300 GT costruite tra il 1966 e il 1968 sono ancora in vita; le poche che arrivano alle aste specializzate sono oggetto di furibonde lotte all’ultimo rilancio. Sempre con la battuta alle labbra, ruvido come soltanto i toscani purosangue sanno essere, eppure talora candidamente ingenuo, l’ingegner Giotto ha vissuto sempre di corsa, invocando sovente la propria umiltà e affermando con forza di non essere stato né un designer né uno stilista, bensì un semplice collaudatore. Uno che – a suo dire – si limitava a progettare soluzioni per fare andare forte le macchine. Uno poco interessato all’armonia delle forme, perché convinto che la linea dev’essere conseguenza della funzionalità, cioè della velocità. Un uomo di fulgido genio: eppure, come lui stesso ammette senza tanti fronzoli né rimpianti, privo di qualsiasi senso per la carriera e gli affari. Lasciò la Ferrari che aveva contribuito a rendere grande, nonostante la stima del Drake, perché coinvolto suo malgrado nella famosa rivolta dei dirigenti, che portò a una generale epurazione da Maranello. E ancora oggi ricorda senza drammi il fallimento della sua azienda, che aveva messo in piedi una volta terminata la collaborazione con la Iso di Rivolta e che era riuscita a produrre auto più veloci e costose delle stesse Ferrari. Vetture che oggi valgono milioni di euro, ma che Bizzarrini non possiede, a ennesima testimonianza che il talento spesso non va di pari passo con la fredda praticità dei denari. Assurto a mito negli anni 60, l’ingegnere livornese non ha mai smesso di fare macchine, spesso collaborando con aziende vogliose di far rivivere i fasti del nome Bizzarrini. Ma i vari tentativi – alcuni seri, altri meno – si sono sempre rivelati infruttuosi: quando si ha a che fare con una leggenda, è sempre difficile ritrovare la scintilla primordiale.

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La Bizzarrini 5300 GT vanta prestazioni straordinarie grazie al motore della Chevrolet Corvette: in pista supera i 260 km/h

Iniziamo subito con qualcosa di politicamente molto scorretto. Lei non soltanto ha progettato, ma ha anche collaudato alcune delle macchine più potenti e veloci della storia: guida ancora forte?
Che vuole, ormai ho un’utilitaria, non è che si faccia molto con quella. E poi appena spingo un po’ la moglie mi dà una calmata. Però io sono nelle stesse condizioni di un tempo e ogni tanto qualche soddisfazione me la tolgo. Non sopporto, per esempio, i furbetti che ti arrivano sparati nel sedere e poi rimangono lì incollati. Oh, io mica sono della polizia, non vado in giro a prendere le targhe di quelli che vanno veloci. Superatemi, dico. E se non lo fanno, alla prima curva li frego: stacco tardi e li lascio lì come dei bischeri.

Ok, ora le cose serie. Come ha fatto un ingegnere di Quercianella ad arrivare a progettare la Ferrari 250 GTO (fra le altre, s’intende...)?

Mi laureai a Pisa nel 1953 con una tesi su un motore quattro cilindri raffreddato ad aria, mentre mi divertivo, assieme a un meccanico di nome Pasqualetti, che aveva l’officina sotto la mia stanzetta di studente, a elaborare una Fiat Topolino balestra corta. Insomma, la voglia di mettere le mani sulle macchine l’ho sempre avuta. Finita l’università, feci domanda d’assunzione presso tutte le Case. All’Alfa Romeo il capo del personale era Ercole Di Pietro, che era stato allievo di mio nonno Giotto, professore di matematica, e che mi prese, fors’anche per il nome. Quindi mi trasferì a Milano, al reparto Sperimentazione.

E lì iniziò a collaudare le macchine?
Assolutamente no. All’epoca, noi ingegneri non potevamo guidare: si poteva salire accanto ai collaudatori e basta. Così feci subito grande amicizia col mitico Consalvo Sanesi, il capo dei tester: capì subito che volevo fare quel lavoro.

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Giotto Bizzarrini nel 1989, accanto alla Picchio, sportiva da corsa da lui progettata. Dopo la realizzazione di una serie di prototipi, l’auto definitiva scenderà in gara nel 1998

 

Possibilità che le viene offerta nel ’57 dalla Ferrari: come arrivò alla corte del Commendatore?
Un mio cugino lavorava alla Pignone di Firenze ed era amico dell’ingegner Andrea Fraschetti, che era il capo della progettazione alla Ferrari: gli parlò di me e del mio desiderio di fare il collaudatore. Alla fine, lo convinse, anche perché era da poco scomparso, in un incidente in prova all’autodromo di Modena, il loro capo collaudatore Sergio Sighinolfi ed erano alla ricerca d’un ingegnere. A quei tempi, appena arrivai – il 6 febbraio del 1957 – il mio capo, Luigi Bazzi, mi diede una macchina da collaudare. Mi ricordo che presi una strada di campagna e, di nascosto, mi fermai: non avevo mai visto da vicino una Ferrari. Fino a quel momento mi ero limitato a guidare la Topolino...

Beh, c’è una bella differenza fra una Topolino e una Testa Rossa...
Per nulla. In fin dei conti, il concetto è lo stesso, alla fine cambia soltanto la velocità…

Forse per lei, che ha sempre guidato quelle granturismo. Per noi comuni mortali, la differenza c’è, e pure grande. Comunque, lei venne assunto direttamente da Enzo Ferrari, vero?
Sì, mi prese per occuparmi non delle monoposto, ma delle vetture stradali e delle sport prototipo. I miei rapporti con lui furono sempre ottimi. Anzi, non esito a definirlo un secondo padre, anche se io ero famoso per la lingua tagliente. Quel giorno, quando tornai dal giro con la prima Ferrari della mia vita, il Commendatore era lì all’ingresso ad aspettarmi. Mi chiese subito che cosa pensassi dell’auto. Risposi che era terribile. Mi aspettavo una reazione delle sue; invece Ferrari mi disse che, non riuscendo mai a guidare le sue macchine, voleva qualcuno che gli dicesse la verità. Credo che mi apprezzasse proprio perché ero sempre sincero fino alla brutalità, come l’altro livornese Aurelio Lampredi.

Curioso il ritratto che fa di Ferrari. Tutti lo descrivono come un uomo impossibile, lei invece lo dipinge come un santo…
Enzo è stato il più grande imprenditore italiano. Era dotato di una capacità manageriale incredibile e aveva il raro dono di saper ammettere i propri errori. Per non parlare delle doti commerciali. Mi ricordo quando volevamo passare alle gomme Pirelli per le auto da gara. Prima che iniziassero le trattative, Ferrari mi disse di non aprire bocca, che avrebbe fatto tutto lui. Alla fine, non soltanto la Pirelli ci diede i pneumatici, ma ci garantì anche un sacco di soldi (nonostante allora gli sponsor fossero vietati). E mi ricordo un altro aneddoto. L’unico incidente che ho mai avuto in collaudo fu con una Ferrari, quando un trattore mi tagliò la strada. Pochi minuti dopo lo scontro, passò di lì il Commendatore, che si limitò a dire, guardando la macchina incocciata: “Pazienza, chi va al mulino s’infarina”.

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L'unico esemplare della Bizzarrini BZ 2001 del 1990

Poi però Ferrari la cacciò su due piedi. La storia narra che nell’ottobre del 1961 gli otto maggiori dirigenti della società, fra cui lei e Carlo Chiti, furono licenziati in tronco perché accusati di ammutinamento nei confronti della moglie di Ferrari, la cui ingerenza nella gestione dell’azienda era ritenuta eccessiva.
Ferrari non ebbe scelta. Avevo messo la mia firma sotto una lettera di solidarietà nei confronti di Gerolamo Gardini, il direttore commerciale, che aveva avuto problemi con la signora Laura. In più, quel gruppo di manager non si presentò in ufficio il lunedì successivo, facendo il primo sciopero di dirigenti della storia.

Beh, bel secondo padre…
La verità era un’altra. Ferrari stava già trattando con la Fiat per cedere agli Agnelli la parte industriale e tenersi soltanto la scuderia: il management era ferocemente contrario. E poi già sapevo che sarei andato via: uno dei miei figli soffriva di febbre reumatica e io avevo deciso di tornare a Livorno. Anzi: pochi giorni dopo il licenziamento, Ferrari mi richiamò per offrirmi il mio posto. Ma ormai non potevo più tornare indietro, anche perché avevo promesso a Chiti di lavorare con lui all’ATS.

Un’avventura, quella con l’ATS di Chiti e del conte Volpi, che durò poco…
Preferii aprire una mia società di consulenza, l’Autostar, per lavorare anche con altre Case.

Fra cui la Lamborghini, per la quale progettò il 12 cilindri poi della Miura.

Strano tipo, Ferruccio Lamborghini. Non un manager come Ferrari, ma un uomo d’officina, molto pragmatico. Mi chiese di progettare un 12 cilindri da almeno 320 CV: ogni cavallo in meno significava una decurtazione dell’onorario. Io raggiunsi i 350 CV, ma mi piantò una grana perché la potenza era erogata a 9.500 giri, secondo lui un regime troppo alto. Fu lì che litigammo e alla fine non mi diede tutti i soldi. L’altra avventura fu quella della Iso di Renzo Rivolta: un altro industriale con l’ambizione di voler creare una granturismo…
Esatto. Feci per loro la Grifo. Renzo mi chiamò a Milano, chiedendomi se potevo provare una vettura americana con un V8 della Chevrolet, che guidai sulla pista di Bresso. Gli dissi: “Senta, la macchina fa schifo: ma lo Chevy 5.3 non è male”. Allora mi chiese di progettare il telaio per una nuova GT. Che però Rivolta non riusciva a vendere: si rifiutava di fare le corse, nonostante io continuassi a spingere in tal senso. Alla fine, mi regalò un sacco di pezzi del progetto A3C e mi misi io a produrre la “mia” 5300, in una piccola officina di Livorno.

E Ferrari come la prese?
Benissimo, non è mai stato geloso. Anzi, spesso mi aiutò a trovare i fornitori. E ciò nonostante la mia macchina fosse più veloce delle sue: una volta la cronometrammo a 303 all’ora.

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La Bizzarrini 5300 GT viene testata da Quattroruote: la prova sarà pubblicata sul fascicolo del febbraio 1966

Lei ci guadagnò con la Bizzarrini?
Figuriamoci, io fallii in fretta. Non ho mai avuto lo spirito imprenditoriale. Io volevo guidare, fare le corse, studiare i motori. Feci un gran casino e dovetti chiudere l’azienda. Colpa anche dei miei soci, come Pasquini, industriale ricchissimo, che fece di tutto per portarmela via. A quel punto, preferii fallire. Io come industriale non ho mai avuto alcuna capacità.

Oggi le sue auto sono tra le più ricercate fra i collezionisti, con valori che toccano milioni di euro: lei ne ha ancora qualcuna?
No, neppure una. Del resto, è la prova che io, con gli affari, proprio non c’azzecco.

Imprenditore no: come si definisce allora? Un progettista?
No, io mi sono sempre considerato un pilota collaudatore, come il mio maestro Sanesi.

E non mai avuto la tentazione di correre in gara?
Guardi, all’inizio avevo questo sogno. Poi un giorno salì accanto a Juan Manuel Fangio, sempre all’autodromo di Modena, su una Ferrari prototipo. Alla fine del primo giro capii che il pilota non l’avrei mai saputo fare. Al fondo del primo rettifilo, mi dicevo: “Ora frena, ora frena”, e quello niente, tirava dritto. All’altezza della curva, diede un colpo di freno, mise la macchina di traverso, riaccelerava, rifrenava. Non riuscivo neppure a immaginare di guidare come faceva lui. Tra il collaudatore e il pilota c’è un abisso, è proprio una scuola diversa. E lui, all’uscita delle chicane, si lamentava pure che la vettura aveva poca potenza.

Quali altri piloti dell’epoca ha conosciuto?
Giancarlo Baghetti non l’ho mai considerato un pilota “vero”: era un gentleman driver, ma io ero anche meglio di lui. Luigi Musso, invece, era un asso. La differenza, a quei tempi, era che il professionista sceglieva di morire in gara. Oggi, quanti piloti iniziano la carriera sapendo di giocarsi la vita?

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