Dai trattori alla Countach: 30 anni fa l’addio al fondatore del “Toro”
"Son Lamburghén", sono Lamborghini. Nella sua potenza, il personaggio sta tutto lì. Nelle due parole nel dialetto stretto di Arnàz, Renazzo, una zolla della sterminata provincia emiliana fra Bologna e Ferrara. Spesso si presentava così, sbrigativo nei modi, veloce come la sua intelligenza. Due parole che ogni innamorato dell'automobile avrebbe voluto sentire almeno una volta nella vita. Trent'anni dopo la sua scomparsa, non sono poi molti quelli che possono raccontarlo. Quando se ne andò, il 20 febbraio del 1993, Ferruccio Lamborghini era tornato da tempo alla terra. Da bravo countadéin, come lo apostrofava Enzo Ferrari in privato. Vent'anni prima la Miura era uscita di produzione e il patron era stato costretto a lasciare la proprietà dell'azienda che continua a portare il suo nome; i trattori che avevano costruito la sua fortuna erano andati alla SAME, la fabbrica dei bruciatori e condizionatori affidata al figlio Tonino. Si era ritirato per condurre una vita più tranquilla, diceva lui, nella tenuta di 30 ettari della Fiorita a Piancarola, un paesino umbro sul Trasimeno. Ci era arrivato a 57 anni, amareggiato da un mondo che non capiva più, ma ancora pieno di energia e con una nuova compagna, Maria Luisa, che l'avrebbe reso nuovamente padre. Quell'energia l'avrebbe trasfusa tutta nel ripristino della fattoria e nella produzione del celebre vino rosso "Sangue di Miura". Una seconda vita. Che non poteva eclissare ciò che era stato, né l'aura che emanava la sua personalità. Anche perché, nel frattempo, aveva provato a rientrare in possesso della "sua" Automobili e aveva brigato in segreto con Romano Artioli per la rinascita di Bugatti, a Campogalliano. In pensione, forse, non c'era mai andato per davvero.
C'è una fotografia in bianco e nero che racconta bene l'uomo e l'imprenditore. È quella, famosa, in cui posa orgogliosamente appoggiato a uno spigolo della Jarama (la sua preferita si dice, così bassa davanti da poter vedere una cicca a tre metri) e accanto a uno dei suoi trattori bianchi. Lamborghini apparteneva a quella generazione di Cavalieri che era venuta su dal niente (i vari Innocenti, Borghi, Fumagalli, Invernizzi, lo stesso Ferrari) grazie al culto del lavoro duro, alla determinazione, alle intuizioni vincenti e al forte senso di concretezza. Quelli che nulla lasciavano al caso: tutto doveva essere peculiare, avere un senso. Lamborghini è stato l'archetipo di un Paese che è ripartito dai campi per arrivare alle industrie. Erano tempi da tori e toreador, verticali e un po' selvaggi, in cui tutto era a portata di un uomo deciso e con le idee chiare. In più, lui ci metteva l'humus dell'astuzia e il grande fascino personale - funzionava benissimo con le donne, un'ossessione che mai l'avrebbe abbandonato, al pari di quella per il rivale di Maranello. Ferruccio il conquistatore: di femmine, di talenti, di traguardi che sembravano follemente impossibili. Se oggi possiamo godere dei suoi capolavori anche soltanto ammirandoli, ascoltandoli, resta il rimpianto di non potersi più trovarsi al cospetto di quest'uomo di un'altra epoca, l'unica possibile. Di non potersi scottare con il fuoco interiore che lo animava, per cercare di capire da dove venisse l'aspirazione alla bellezza e all'eccellenza che lo spinse dai trattori Carioca alla Countach, dalla campagna alla Motor Valley.
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