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Industria e Finanza

Germania
Si moltiplicano gli allarmi sull'industria dell'auto

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Dalla Germania arrivano nuovi segnali allarmanti sullo stato di salute del settore automobilistico. A destare nuovi timori è stata una ricerca della società di revisione EY: secondo l'analisi, negli ultimi dodici mesi sono stati persi oltre 100 mila posti di lavoro nell'industria manifatturiera, di cui il 45% circa nelle sole attività legate alla produzione di auto. Si tratta di numeri che rappresentano uno choc per un Paese in cui le quattro ruote generano ancora un quinto dell'intera ricchezza nazionale. 

Le elaborazioni di EY. La ricerca si basa sui dati dell'Ufficio statistico federale e fornisce un quadro preoccupante. Al 31 marzo scorso, l'industria tedesca occupava 5,46 milioni di persone. Il calo percentuale dell'1,8% rispetto a un anno fa si traduce, in valori assoluti, in 101 mila dipendenti in meno. Non solo. Rispetto ai livelli pre-pandemia, sono stati persi 217 mila posti di lavoro (-3,8%), che diventano 240 mila rispetto al 2018, quando è stato raggiunto il massimo storico di circa 5,7 milioni di addetti. Come indicato, gran parte del calo è da attribuire all'auto: sono 45.400 i lavoratori usciti solo nell'ultimo anno. In sostanza, nel giro di dodici mesi è andato in fumo il 6% di tutte le posizioni legate alle quattro ruote. Oggi sono circa 734.000 le persone impiegate dall'auto, un dato lontanissimo dai quasi 900 mila addetti raggiunti prima della pandemia. Significa che si sono persi oltre 150 mila posti in poco più di cinque anni. 

Un futuro ancora più fosco? La ricerca non esclude la perdita, entro la fine dell'anno, di altre 70 mila posizioni, per la maggior parte sempre nella meccanica e nell'industria dell'auto. Ovviamente, i dati hanno rafforzato i timori sul rischio di una deindustrializzazione progressiva e forse inarrestabile per una nazione che ha fondato i successi economici proprio sulla forza della sua industria manifatturiera e sul suo nucleo storico legato alla produzione di auto, furgoni o camion. Tuttavia, non manca chi sottolinea come l'attuale crisi sia solo passeggera e legata a fattori esogeni (dazi, tensioni commerciali, incertezze macroeconomiche a livello globale). Lo dimostra il confronto con i dati del 2014: l'occupazione risulta in crescita del 3,5%, l'equivalente di 185 mila posizioni.

Tra paure e speranze. La pandemia ha messo a nudo i problemi del modello economico plasmato durante l'era Merkel: eccessiva esposizione alle esportazioni; costi energetici in continua crescita per l'addio al nucleare e la dipendenza dalle forniture di gas russo; burocrazia sempre più asfisiante; infrastrutture rese obsolete da un rigore di bilancio arrivato a livelli patologici (non a caso l'attuale governo ha aperto a una riforma del vincolo costituzionale del "freno al debito", lo Schuldenbremse). Tuttavia, c'è anche chi sottolinea due aspetti. Il primo riguarda la sostanziale tenuta di altri comparti tradizionalmente forti come la chimica e la farmaceutica, mentre il secondo ha una natura storica: la Germania è stata già capace di risollevarsi da una delle sue crisi peggiori. Buona parte dei successi dell'era Merkel sono da attribuire anche ad Agenda 2010, il pacchetto di riforme lanciato da Gerhard Schröder all'inizio del secolo, che ha posto fine a un lungo periodo in cui la Germania si era trasformata da locomotiva e grande malato d'Europa. Ora serve una nuova scossa anche per rispondere alle istanze dei ceti industriali. Non a caso, l'Associazione tedesca dell'industria automobilistica (VDA) ha invitato i politici ad agire in fretta per frenare l'erosione della competitività della Germania. A tal proposito, la coalizione di governo guidata dal neocancelliere Friedrich Merz ha alimentato nuove speranze con un "bazooka economico" incentrato non solo sulla riforma del Schuldenbremse, ma anche, se non soprattutto, su un pacchetto di investimenti pubblici da ben mille miliardi di euro.

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