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Le grandi interviste
Stirling Moss: "Se non apprezzi più l’azzardo e il pericolo a ogni curva è l’ora di smettere"

SFOGLIA LA GALLERY

Stirling Moss ci ha lasciati. Il pilota inglese si è spento a Londra all'età di novant'anni. Per ricordarlo abbiamo deciso di riproporvi l'intervista che il nostro direttore Gian Luca Pellegrini realizzò a Londra nel 2011 e che è stata pubblicata per la prima volta nel gennaio del 2012 all'interno del volume 'Quattroruote - profili di eccellenza'.



Sir Moss ha deciso: basta con le corse. Il 9 giugno del 2011, alla tenera età di 81 anni, il pilota londinese ha appeso il volante al chiodo per sempre. In realtà, è la seconda pensione: Moss s’era ritirato dalle competizioni nel 1962, dopo un tremendo incidente sulla pista di Goodwood, ma aveva continuato a guidare auto storiche, perché la passionaccia, quella, non muore mai, neppure dopo aver visto la morte in faccia. Una volta per tutte, dunque, Moss ha messo la parola fine a una carriera leggendaria, i cui numeri dicono tutto: dal secondo dopoguerra ai primi anni 60, sono state 585 gare disputate, di cui 209 vinte, su 108 diverse macchine, in tutte le categorie umanamente immaginabili. Formula 1, Formula 3, Sport, ma anche rally. Moss ha provato (e vinto) tutto, sfoggiando una versatilità pressoché incredibile al giorno d’oggi, in un mondo dove la specializzazione impera incontrastata. Al di là dell’impressionante palmarès, Moss è stato il prototipo del pilota professionista, pronto a impugnare qualsiasi volante in cambio di generosi compensi, mentre i suoi rivali (tranne Fangio e pochi altri) erano perfetti esempi di gentlemen più affascinati dal rischio che non dalle prospettive di guadagno. Un atteggiamento, quello di Sir Stirling, curiosamente mediato da cedimenti affettivi quantomeno inaspettati: ferocemente nazionalista, ha sempre preferito correre sotto i colori dell’Union Jack, affermando che “è meglio perdere con dignità su un’auto britannica che vincere su una straniera”; e il suo principale rammarico – quello di non aver mai vinto un Mondiale di F.1 – deriva da una scelta di principio quasi incredibile per un professionista. Si era nel 1958, Moss correva per la Vanwall ed era ormai certo di portare a casa il titolo iridato. Alla terz’ultima gara del calendario, in Portogallo, il suo principale rivale della stagione, il biondissimo Mike Hawthorn, venne squalificato per aver seguito i suggerimenti di Moss, che gli gridò, dopo un testacoda, di imboccare la pista contromano in discesa per far ripartire il motore. Stirling si batté perché venisse mantenuto l’ordine d’arrivo effettivo (lui primo, Hawthorn secondo), riuscendo infine a convincere gli ufficiali di gara. Al termine del campionato, Hawthorn vinse per un solo punto di distacco, pur essendosi imposto in una sola gara. Ancor oggi, quando gli si chiede se non avrebbe fatto meglio a tacere, accettare il verdetto dei commissari e così assicurarsi la vittoria finale, il baronetto liquida i rimpianti con un’alzata di spalle: “Era l’unica cosa corretta da fare, questo è uno sport. E nello sport bisogna essere corretti fino in fondo”.

Stirling Moss: "Se non apprezzi più l’azzardo e il pericolo a ogni curva è l’ora di smettere"

Sir Moss, perché ha deciso di smettere?
Partiamo dall’inizio, ovvero da quando, a 16 anni, feci le mie prime corse in salita, qui in Inghilterra, e poi all’estero, perché da noi, dopo la guerra, non c’era la benzina e le competizioni erano davvero poche. Anzi, la mia prima vera gara seria fu proprio in Italia, sul Lago di Garda, nel 1949, su una Cooper 1000. Da lì in poi la mia vita è stata dietro un volante: fino al 1962 come professione e poi per il puro piacere di correre con le auto storiche. Alla fine di maggio, ero a Le Mans su una Porsche e mi sono accorto di non essere più competitivo: non riuscivo ad andare veloce, che è l’unica cosa che mi è sempre interessata. Inoltre, mi sono reso conto che, se anche fossi riuscito ad accelerare, avrei avuto paura. Non ho mai provato nulla del genere alla guida di una macchina. E ho capito che avrei dovuto abbandonare una volta per tutte.

Insomma, anche i miti hanno paura…
Assolutamente sì. Il problema sta nel come si affronta questo sentimento che ti sale da dentro. Io ho saputo quasi sempre controllarlo. Di solito, negli incidenti, il pilota cerca sempre di fare qualcosa per evitare l’impatto, perlomeno ai miei tempi era così: io, per esempio, tentavo di girare l’auto perché fosse la coda della vettura ad assorbire l’urto e perché non vedere dove ci si schianterà tranquillizza. Avere una tale lucidità significa che la paura non ti ha appannato la capacità di ragionare. Detto ciò, poche volte, nella mia carriera, mi è capitato di spaventarmi davvero, anche se non abbastanza per ritenermi uno scampato alla morte.

Però nel 1962, dopo l’incidente di Goodwood, a causa del quale finì in coma per un mese e rimase parzialmente paralizzato per altri sei, lei non riuscì più a tornare in pista, per lo meno come professionista. Fu la paura a farla smettere o altro?
Di quell’incidente non ricordo nulla. Quindi non fu paura. Più banalmente, quando mi rimisi alla guida di una monoposto, un anno dopo, non avevo più la necessaria concentrazione per portare una Formula 1 alla massima velocità. Per fare questo mestiere – oggi come allora – bisogna essere completamente assorto nelle prestazioni. Quando, tre o quattro anni dopo, pensai di aver ritrovato il giusto approccio, le corse erano cambiate. Nel frattempo era arrivato Jim Clark che andava fortissimo, le macchine montavano pneumatici slick, era un altro mondo, insomma.

E non si è mai pentito di aver voluto lasciare le corse? In fin dei conti, all’epoca aveva appena 32 anni…

Adesso, seduti qui a parlare dopo tanti anni, è facile esaminare il problema. Ma all’epoca avevo i giornalisti che mi chiamavano tutti i giorni per conoscere le mie intenzioni ed ero sotto pressione. Altri brutti incidenti li avevo fatti: nel 1959, mi ruppi entrambe le gambe e la spina dorsale, ma avevo la consapevolezza che sarei tornato a correre appena fossi stato in grado di camminare. Dopo Goodwood, semplicemente, non riuscii a ritrovare lo stato mentale giusto per tornare a essere un professionista.

Stirling Moss: "Se non apprezzi più l’azzardo e il pericolo a ogni curva è l’ora di smettere"

A questo proposito, lei è sempre stato ritenuto il primo pilota di professione: né gentleman driver né pazzo scriteriato, ma uno specialista che correva con tutte le auto per guadagnare il più possibile. Questa definizione la imbarazza o ne è orgoglioso?
Né l’uno né l’altro: era la verità. Mi piaceva fare il pilota, ma decisi subito che non avrei mai pagato per assecondare la mia passione. E per ogni gara avevo la mia tariffa. Intendiamoci, erano guadagni neppure paragonabili agli attuali. All’apice della carriera, nel 1961, dopo aver fatto 52 corse tra Formula 1, Sport e altre categorie, il mio reddito annuale fu di 25.000 sterline. All’epoca, il pilota si pagava tutto, compresi i viaggi aerei, che erano costosissimi: tolte le spese, rimasero 8.000 sterline. Riuscii a comprare la casa dove ancora vivo, a Mayfair, ma senza fare pazzie: la costruii dopo aver comprato un terreno dove una bomba, durante l’ultima guerra, aveva spianato un hotel. Pagate le tasse, mi misi in tasca 4.000 sterline: quanto guadagnava un buon avvocato. Però mi giocavo la vita ogni weekend...

È opinione comune che negli anni 50 fare il pilota di professione significasse votarsi alla morte in ogni gara: era davvero così?
Assolutamente sì. Per noi il pericolo era una motivazione fortissima, forse la più importante. Era quello che mi eccitava di più. Vincere era bello, certo. Ma la vera impresa era quella di superare la paura a ogni curva.
 
È per questo che non voleva mettersi il casco?
Mio padre mi obbligò a metterlo, altrimenti non mi avrebbe fatto correre. Io risolsi il problema indossando un elmetto da polo, che non serviva a nulla. E correvo con le maniche corte. Oggi le corse non hanno più il fascino del­­l’azzardo.

Una critica, neppure molto velata, alla Formula 1 dei nostri giorni?
La F.1 è interessante per vedere i progressi tecnici, ma eccitazione zero. Adesso le macchine sono attaccate l’una all’altra, perché pensano che questo sia spettacolo. In realtà, è solo un livellamento verso il basso.

Inevitabile chiederle che cosa pensa dei piloti, quindi.
Non si può dare la colpa a un uomo perché non lavora nel pericolo. Sono bravi, per carità, soprattutto Vettel, ma non cambierei i miei tempi con gli attuali.

Stirling Moss: "Se non apprezzi più l’azzardo e il pericolo a ogni curva è l’ora di smettere"

C’era una corsa che la eccitava, o la spaventava, più delle altre?
La Mille Miglia era davvero terrificante. Non si poteva imparare il circuito, era troppo lungo. Però andavo forte lo stesso. Nel 1955, con la Mercedes numero 722, io e il navigatore Jenkinson percorremmo i 1.597 km a quasi 158 all’ora. E nell’ultima tappa, quella in pianura, la media fu di 264 km/h. Su strada normale.  

C’è un motivo particolare a determinare il fatto che non corse mai con una Ferrari, perlomeno nella massima serie?
Nel 1951, quelli di Maranello mi offrirono un’auto per disputare il Gran Premio di Bari. Partii da Londra in auto, attraversai l’Europa e arrivai in Puglia due giorni dopo. Quando mi presentai ai box, vidi la mia Ferrari e mi ci sedetti subito dentro. I meccanici mi chiesero chi fossi. Risposi che ero Moss e che avrei dovuto guidare una quattro cilindri in gara. Loro mi risposero che quella macchina era di Piero Taruffi. Enzo Ferrari aveva cambiato idea e non mi aveva detto nulla. Mi offesi moltissimo e mi ripromisi di non correre mai per il Cavallino. In realtà, poi feci almeno 12 gare con le “rosse”, anche se nella categoria Sport e sempre con vetture private. Nel 1961, Ferrari mi chiamò a Maranello per offrirmi un contratto e raggiungemmo un accordo per l’anno seguente. La macchina non arrivò in tempo e io corsi a Goodwood con una Lotus: lì ebbi l’incidente che chiuse la mia carriera professionistica. Se avessi avuto una Ferrari, probabilmente non mi sarei fatto così male.

Quindi era vero che le Lotus erano troppo fragili?
Certo. Chapman era un buon progettista, ma puntava tutto sulla leggerezza. Io quasi mi ammazzai e qualche anno dopo Jim Clark morì: era troppo bravo per fare uno sbaglio fatale, la colpa fu dell’auto.

Chi era più forte, lei o Fangio?
Fangio. E non è falsa modestia. Sulle Formula 1, almeno. Sulle Sport lo battevo spesso. Quando gli chiedevo perché preferisse le monoposto, mi rispondeva sempre che lui voleva vedere le ruote davanti. L’ho sempre considerata un approccio curioso, perché sulle macchine da corsa si guarda centinaia di metri avanti, non sotto il proprio naso. Ma tant’è… La verità è che lui era totalmente concentrato sulla guida, con una costanza unica; poi era davvero veloce.

Stirling Moss: "Se non apprezzi più l’azzardo e il pericolo a ogni curva è l’ora di smettere"

E non ha mai provato frustrazione, negli anni della Mercedes, quando correvate assieme?
No. Allora non c’erano ordini di scuderia, non c’erano prime e seconde guide. L’unica regola era che se una delle nostre auto aveva 30 secondi di vantaggio non andava attaccata. Per il resto, si duellava senza problemi. Alfred Neubauer, il direttore tecnico, si arrabbiava quando inseguivo Fangio da vicino. “E se va a sbattere?”, mi diceva. La verità è che Fangio non faceva mai incidenti, perché non sbagliava mai!

Lei è definito il più grande perdente perché non ha mai vinto un Mondiale: non le pesa?


Sono arrivato quattro volte secondo, ma io il titolo l’avrei vinto nel 1958, perché all’ultima gara, in Portogallo, squalificarono Mike Hawthorn, che era il mio rivale. Io dissi che avrebbero dovuto togliergli la penalizzazione, perché era ingiusta. E lui vinse di un punto il campionato. A me bastava di aver meritato il rispetto dei colleghi, più che la gloria. Schumacher ha vinto sette Mondiali, due più di Fangio, ma non sarà mai un grande pilota come Juan Manuel.

E non si è pentito del beau geste?
Per nulla. Allora le corse erano uno sport. E nello sport queste sono le cose giuste da fare.

Quindi oggi la Formula 1 non è più uno sport?
Of course not! Come fa a esserlo quando un pilota guadagna 15 milioni di dollari l’anno? I piloti, oggi, non provano piacere a correre, perché non c’è alcun pericolo in pista. Il rischio aumenta il piacere. Io amo la vita; ma vincere con i brividi è un’altra cosa.

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