Ford v Ferrari, un perfetto spettacolo hollywoodiano
Fare film sulle corse d’auto è facile. E infatti ce ne sono tanti. Fare film belli sulle corse d’auto è difficile. E infatti si contano sulle dita di una mano. Una volta risolto il non banale problema di ricreare in modo sufficientemente credibile il pathos, l’adrenalina e l’agonismo che delle competizioni sono il carburante primo, c’è il fatto che queste opere costano una fortuna, per la difficoltà tecnica insita nel realizzarli. Così, se si hanno le risorse (organizzative, registiche e artistiche) per permettersi produzioni ad altissimo livello vengono fuori capolavori da hall of fame del cinema. Se non si hanno, o si concepisce il motorsport come pretesto per pensose introspezioni psicologiche, o se si vuole fare soltanto casino per impedire al pubblico di appisolarsi, il risultato sono inevitabilmente inverosimili polpettoni che ti fanno venir voglia di lasciare la sala o cambiare canale. Linea rossa 7000, 24 Ore di Le Mans, Destino sull’asfalto e Grand Prix (il cui virtuosismo tecnico, con uno split-screen portato all’esasperazione per essere visto nella gloria del 70 millimetri, lo rende oggi inguardabile in tv), forse anche il più recente Rush appartengono alla prima categoria; lascio alla vostra sensibilità artistica decidere chi appartenga alla seconda. Visto il cancan mediatico che è esploso (già si parla di candidatura all’Oscar) abbiamo dunque ritenuto doveroso – perché il giornalismo-verità è anche sacrificio e perché certi fenomeno vanno capiti dove nascono – volare a Hollywood per comprendere se Le Mans ’66-La grande sfida (in America, per ragioni sconosciute, è didascalicamente intitolato Ford v Ferrari) merita di diritto di entrare nella top ten degli appassionati. (Non è vero: siamo a Los Angeles per la preview della Mach-E e per farci assorbire il jet lag la Ford ci ha portato ai Fox studios a svagarci).

La Ford GT 40 protagonista dell'impresa
Non è un documentario. Il soggetto si conosce: è la storia di quando – nei primi anni 60 – a Henry Ford II (figlio di Edsel, nipote del patron Henry), opportunamente inzigato dall‘arrembante wop Lee Iacocca e voglioso di regalare un tocco d’esotismo alla propria vocazione mass market, venne in mente di comprarsi la Ferrari. Ricevuto lo sdegnoso rifiuto del Commendatore, che pure fu lì lì per cedere alla generosissima offerta degli americani (10 milioni di dollari), l’erede della dinastia decise allora di vendicarsi, sferrando l’assalto all’egemonia del Cavallino sul terreno di gara più prestigioso. Le Mans, appunto. Ora, il maniaco di macchine, di fronte a una vicenda che ha fatto la storia dell’automobile e di cui si conoscono tutti i particolari, non può esimersi dal guardare il film con l’occhiuto zelo dell’osservatore scientifico. Ed è uno sbaglio. Questo non è un documentario: è un prodotto pensato per il grande pubblico, in cui la precisione filologica è spesso sacrificata all’esigenza di coinvolgere lo spettatore. Quindi, meglio sorvolare sulle marchiane imprecisioni storiche, che pure non sono poche (la presenza di Ferrari a Le Mans, una certa confusione cronologica, qualche ingenuità geografica come le palme californiane in quella che dovrebbe essere Fiorano o la villa torinese di Gianni Agnelli a pochi metri dalla costiera amalfitana, il fatto che fu come m’informa Carlo Cavicchi fu Filmer Paradise, presidente di Ford Italia, e non Iacocca, a iniziare le trattative con lo stesso Ferrari eccetera) e godersi senza pregiudizi un filmone hollywoodiano girato con straordinaria generosità di mezzi.

Scritto bene e girato meglio. Certo, vedendo lo svolgimento della trama, verrebbe da dire che il titolo avrebbe dovuto essere Ford v Shelby. Gli sceneggiatori, infatti, hanno puntato molto sulla lotta di potere all’interno dell’azienda: a parte Iacocca, sembra che l’intero management – a partire dall’uomo di marketing Leo Beebe (un ottimo Josh Lucas) e dal big boss Ford (Tracy Letts, che a un certo punto esplode a piangere per la paura presa su un prototipo: la lacrime più inaspettate dall’anno cinematografico) – non faccia altro che boicottare il progetto affidato a Carroll Shelby (un Matt Damon texanissimo), chiamato in virtù delle sue esperienze a Le Mans a sviluppare quella che poi sarà conosciuta come GT 40. Fatto salvo l’espediente narrativo, utile a disegnare una parabola di altalenanti fortune prima dell’apoteosi all’edizione ’66 della gara francese, gli autori di Hollywood si confermano eccezionali nella caratterizzazione dei personaggi. Fra cui primeggia la mai abbastanza apprezzata figura di Ken Miles (Christian Bale, a cui è finalmente concesso di recitare con il proprio accento britannico: ma nel doppiaggio si perderà), fortissimo pilota inglese tutta casa, famiglia e officina che della GT 40 fu il primo collaudatore. Non vogliamo togliervi il piacere di sprofondare in due ore e mezza di puro orgasmico ottanico e acustico (i rombi degli otto cilindri spesso sovrastano tutto) raccontandovi come si snoda la vicenda (come va a finire, con l’arrivo in parata delle tre GT 40, è storia). Al netto dell’inevitabile spettacolarizzazione delle scene di gara, che spesso ricorrono alla computer generated imaginery per dare un senso della velocità impossibile da ottenere con le camere normali, in cui imperano i sorpassi a 200 miglia all’ora alla Michel Vaillant – scalando marcia, affondando l’acceleratore e guardando negli occhi l’altro pilota – è un film di inappuntabile professionalità, scritto benissimo e girato pure meglio.
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