Nel 1886, a Mannheim, in Germania, l’Europa è scesa da cavallo ed è salita in automobile. Simbolicamente, si capisce. Karl Benz, uno dei pionieri che in quel periodo s’ingegnavano attorno all’idea di veicoli che si muovessero senza ricorrere all’energia animale, ha appena depositato il brevetto della sua Patent Motorwagen, considerata la prima auto della storia. Ma la diffusione dell’automobile non è avvenuta in un botto. Anzi, accanto alla curiosità per i primi veicoli semoventi, c’era una certa dose di scetticismo: quei trabiccoli non avrebbero mai sostituito carrozze e cavalli. Questi ultimi, in fondo, necessitavano soltanto di un po’ di riposo ogni tanto e una manciata di biada.
Oltre l’automobile. Ci volle il coraggio di Bertha Benz, moglie di Karl, che prese con sé i figli e, all’insaputa del marito, saltò a bordo della Motorwagen, triciclo che aveva assai poco dell’automobile come la conosciamo, e guidò da Mannheim a Pforzheim – un centinaio di chilometri! – affrontando le incognite legate ad autonomia, rifornimento, eventuali noie meccaniche, nel primo viaggio automobilistico di sempre (e prima iniziativa di marketing dei motori). L’impresa ebbe forte risonanza. La curiosità per i trabiccoli senza cavalli si tramutò in interesse, la cronaca in storia. Bertha Benz portò in viaggio, nelle strade di ogni giorno, il disagio – e il fascino – della modernità. Strappando l’invenzione del marito dalle mura del laboratorio e dalle vie cittadine di Mannheim e proiettandola in un contesto più ampio, che presto si sarebbe popolato di strade asfaltate, parcheggi, stazioni di servizio, officine di assistenza, insomma infrastrutture. Anche per questo, molti anni più tardi, nel 1927, nacque la 1000 Miglia (allora Mille Miglia), per portare l’automobile tra la gente e nella vita reale, promuovendo lo sviluppo di quel sistema infrastrutturale.
 
			
La nuova rivoluzione. Alla 1000 Miglia Green 2023, con quattro equipaggi distribuiti su altrettanti modelli elettrici (potete consultarli tutti qui, mentre le foto di questo articolo si riferiscono alla scorsa edizione), portiamo sul tracciato della gara che celebra i fasti e il mito di una rivoluzione tecnologica di 137 anni fa una nuova rivoluzione e tutto il relativo portato di scetticismo, carenze infrastrutturali, diffidenza e difficoltà pratiche. Insomma, in un altro secolo, anzi in un altro millennio e forse alla vigilia di una nuova era, mettiamo in strada, tra la gente e nella vita reale – ancora una volta, come Martha Benz - il disagio della modernità. Troveremo colonnine per ricaricare? Riusciremo a completare le tappe nei tempi previsti? Il dialogo tra i servizi di bordo e l’infrastruttura, quella poca che c’è, funzionerà senza intoppi? Domande che non sono banali, nel nostro Paese. Perché si sa, l’elettrico qui è ancora ai suoi albori e incontra un livello di resistenza che non ha eguali in alcun’altra nazione europea occidentale. Perché? Le ragioni sono molteplici e alcune sconfinano nella psicologia e nell’ideologia. Ma tra le più concrete, accanto al fattore prezzo delle auto “battery only”, c’è sicuramente la percezione di una rete infrastrutturale inadeguata e il timore che i tempi richiesti per cambiare la situazione si prospettino lunghi. Ragioni infondate? Sembrerebbe di no.
Avanti in ordine sparso. Le difficoltà non mancano. Eccole in sintesi. La prima è che il 23% delle colonnine installate non è attivo, perché non sono allacciate alla rete del distributore di energia o per la mancanza di altre autorizzazioni: sono, quindi, del tutto inutilizzabili. Secondo problema: l’11% dei punti è del tipo a ricarica lente (fino a 7 kW), mentre soltanto il 3% supera i 150 kW di potenza, quindi consente la ricarica rapida. Un altro problema è la scarsità di punti di ricarica pubblici lungo le autostrade: ce ne sono solo 559 su un totale di 7.318 km di rete, cioè solo 7,6 punti ogni 100 km. Una società, Free to X, ha installato 81 stazioni ad alta potenza sulla rete di Autostrade per l’Italia e conta di arrivare a 100 entro l’estate, mentre le altre concessionarie risultano molto meno impegnate in questo senso.
 
			
Colonnine rapide, solo un sesto del totale. Al 31 marzo, secondo Motus-E, l’Italia poteva contare su 22.107 colonnine pubbliche installate in 15.262 località diverse, pari a un totale di 41.173 punti di ricarica, per un incremento rispetto a marzo 2022 del 47,3%. In realtà i numeri dicono solo una parte della verità. I valori assoluti del quantitativo di colonnine restano di gran lunga inferiori a quelli della Francia, 65.700, della Germania, 78.730, per non parlare dell’Olanda, 90 mila. E la densità italiana, cioè il rapporto tra colonnine e auto a batteria in circolazione, è alta non perché le prime siano tante ma perché le seconde sono poche. Ma andiamo un po’ più addentro alle cifre: scopriamo che di quei punti di ricarica, l’11% sono lente, cioè caricano con potenza pari o inferiore a 7 kW; il 77% erogano tra i 22 e i 43 kW; mentre le rapide e le ultrarapide, insomma, quelle che più sono utili per quei rabbocchi veloci che renderebbero l’auto a corrente facile da usare nella vita di ogni giorno, valgono cumulativamente solo per il 12%: poco meno di 5 mila. Ah, scusate, dimenticavamo, di queste cinquemila più di un quinto (23%, per l’esattezza, come ricordato sopra) non funziona, in attesa di allacciamento. Perché un conto è l’installazione, un altro è portare la corrente alla colonnina. Sembra banale e scontato che avvenga, ma a quanto pare non lo è. La responsabilità? In Italia è sempre difficile da attribuire, ma spesso le pratiche per le autorizzazioni agli scavi si impantanano negli uffici delle amministrazioni comunali. Le funzionanti sono a volte occupate abusivamente da veicoli non elettrici, senza che la polizia locale faccia più di tanto per reprimere il fenomeno. Come dimostrano le numerose inchieste di Quattroruote, l’ultima nel numero di giugno.
Il senso della sfida. La sensazione è che, sul tema della rete infrastrutturale, manchi coordinamento, linea politica e quel senso dell’”urgenza” che è proprio di ogni grande movimento o rivoluzione. Sembra che la creazione di un network capillare di ricariche rapide sia un adempimento burocratico richiesto, non una sfida di modernizzazione per il Paese. Stiamo attenti, perché la messa a terra di una rete capillare ed efficiente di colonnine non è una mera questione interna. Ricordiamo che il turismo conta per il 13% del Pil italiano e quando i nostri vicini tedeschi o francesi, e gli olandesi e i nordici, scenderanno sui nostri dolci lidi con le loro auto elettriche, che oggi in media in Europa contano già per il 12-15% del mercato del nuovo, se vivranno come un’odissea la ricerca dei punti di ricarica, non è scontato che al viaggio successivo non scartino l’Italia in favore di altre mete. L’infrastruttura non è solo questione di garantire servizi efficienti ai propri cittadini, è un tema di competitività del sistema Paese.
 
			
Il deserto dei centri commerciali. Con i numeri sopra ricordati è una fortuna che le elettriche pure in Italia rappresentino circa il 4% del mercato delle auto nuove, perché in caso contrario saremmo tutti in coda per ricaricare. Ma la diffusione delle colonnine, soprattutto nei punti strategici, non rispecchia neppure quella misera percentuale. Prendete i grandi centri commerciali. A fronte di migliaia di posti auto, quelli destinati alla ricarica delle Bev sono una decina quando va bene. Se rispecchiassero quel 4% di quota di mercato, in teoria su mille posti dovrebbero essere 40, su tremila 120, su cinquemila 200. Sì, certo è una forzatura, perché non parcheggiano solo le auto nuove. Ma la disponibilità di stalli di ricarica è generalmente incongrua anche mettendo in rapporto il circolante elettrico (poco più di 126 mila macchine a fine 2022) con il parco complessivo, circa 39 milioni di vetture. Scelte strategiche degli enti privati che gestiscono gli shopping centre? No, è questione di fissare requisiti minimi vincolanti per il rilascio della concessione edilizia.
Cambierà qualcosa con il Pnrr? Ora, finalmente, nel panorama generale, qualcosa dovrebbe muoversi: a maggio sono stati emessi i bandi per la prima tranche (circa 400 milioni di euro) di finanziamenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr, per l’installazione di nuovi punti di rifornimento di energia. Senza alimentare troppe attese messianiche, diciamo che dovrebbe accrescere il numero, ma anche la qualità, delle colonnine: 21 mila le nuove “prese” previste entro fine giugno 2026, 741,3 i milioni di euro stanziati complessivamente, strade urbane e superstrade le aree interessate dagli interventi, con potenza minima erogata dai futuri punti di ricarica stabilita in 91 kW per le prime e in 175 kW per le seconde, 9 giugno la scadenza fissata per la presentazione dei progetti da parte dei concorrenti. “Tempi troppo stretti”, denuncia Francesco Naso, segretario generale dell’associazione Motus-E, “perché bisogna ottenere e allegare una serie di autorizzazioni che difficilmente possono arrivare tempestivamente”. Quindi, il rischio è che parte delle gare vadano deserte o si ritrovino con domande incomplete o irregolari.
 
			
Le autostrade “dimenticate”. Sono escluse, inoltre, le autostrade. Sì, avete capito bene: cioè i luoghi dove più servirebbe. La ragione sarebbe che le società di concessione devono provvedere esse stesse a emanare i bandi di gara. Per i quali hanno un obbligo di legge. Ma se non lo fanno? Qual è la forza cogente? Secondo Naso, in mancanza di sanzioni o di penali applicabili, i concessionari non hanno particolare interesse a dare impulso all’installazione di colonnine sulle loro tratte. E, a questo punto, nemmeno possono contare sull’incentivo dei fondi del Pnrr. Eppure, i fornitori di energia sarebbero pronti, con milioni di euro di investimenti che aspettano solo di essere attivati. Già nel 2021, per esempio, Enel X aveva manifestato alle società di concessione la propria disponibilità a installare punti di ricarica nelle oltre 440 stazioni di servizio della rete autostradale italiana. Finora gli unici che si siano mossi in modo organico sono quelli dell’Aspi, cioè di Autostrade per l’Italia, che – controllata di fatto dallo Stato – ha deciso di fare le cose “in-house” con la creazione della start up Free to X e ha annunciato a febbraio di quest’anno il raggiungimento delle 50 stazioni di ricarica ad alta potenza sulla propria rete, cifra che è salita a 60 in aprile.
Per il resto, salvo casi sporadici, è tutto fermo. Con le società di concessione che accusano l’Art (l’Autorità per le regolazioni dei Trasporti) di avere tardato a definire le regole del gioco, cioè i requisiti per i bandi, e l’Autorità che ribatte che, in realtà, avrebbero potuto procedere comunque. Risultato? Rischiano di passare anni prima di poter contare su una rete capillare di punti di ricarica ad alta potenza sulle arterie nevralgiche del Paese.
Vuoto di etica? No, di politica. No, così non va bene. Lo diciamo alla politica, al governo. Che ha stabilito, sì, requisiti corretti nel fissare soglie minime di potenza piuttosto elevate per le nuove colonnine, ma che dovrebbe essere altrettanto risoluto e assertivo nello sciogliere il nodo cruciale dei rifornimenti ultra-rapidi in autostrada. Che ha emanato i bandi iniziali, sì, ma che ora dovrà affrettarsi a correggere il tiro su alcuni dettagli, senza arrivare a ridosso della prossima tranche di finanziamenti. Lo diciamo, altrettanto a chiare lettere, agli enti locali, in primis a quelli che sgomitano per un posto in prima fila nella guerra (stupida) all’automobile in nome di una (presunta) fede ecologista. Ci vuole proprio tanto a subordinare l’approvazione di progetti di centri commerciali, cinema, supermercati alla realizzazione di un numero congruo di punti di ricarica, anch’essi rapidi? E a semplificare i lacciuoli burocratici che rendono lunghi e farraginosi i processi per attivare le colonnine una volta installate? Certo, tanta gente è radicalmente contraria all’auto a batteria. Ma ci sono persone che sarebbero pronte a una scelta che riterrebbero “etica”. Tuttavia, alle condizioni attuali non la compiono, e non gli si può dar torto. In Italia non c’è un vuoto di etica, c’è un vuoto di politica.
 
			
Gioco pericoloso. La transizione verso l’elettrico ci può piacere oppure no, convincere appieno o lasciarci gravidi di riserve e distinguo, e i nostri lettori sanno bene quanti ne sollevi, di distinguo e riserve, il nostro giornale. Ma, ad oggi, è un dato di fatto. È una rivoluzione che si è messa in moto per volontà di una Unione europea in cui tutti gli Stati, incluso il nostro, sono rappresentati e sorretta da investimenti enormi da parte dei produttori automobilistici. Ignorarla, o fingere di aderirvi solo per assicurarsi i fondi europei, è un gioco pericoloso che affida tutte le speranze a un eventuale ribaltone politico alle elezioni per il Parlamento europeo del 2024. Ma se il ribaltone non si verificasse, o se, pur con rapporti di forza modificati, le istituzioni di Strasburgo e di Bruxelles dovessero sostanzialmente riconfermare il “Fit for 55”, i nostri palleggi “di melina” avranno ottenuto il solo effetto di relegare l’Italia nelle retrovie anziché nel gruppone di testa dei Paesi leader del Continente (dove, come membro fondatore e settima economia mondiale ci spetterebbe di stare). Il disagio della modernità è anche questo, vivere in un Paese che non la prende (abbastanza) sul serio.
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