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Auto elettriche
L’invasione cinese è partita dalla Norvegia e fa paura

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L’invasione cinese è partita dalla Norvegia e fa paura
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La storia dell’auto è piena di corsi e ricorsi di vichiana memoria. Oggi si parla tanto di una prossima invasione cinese in tutto il mondo e, in particolare, in Europa: si teme soprattutto il vantaggio accumulato dal Paese del Dragone nel campo della mobilità elettrica, tra bassi costi di produzione, ferreo controllo della catena del valore delle batterie e anche livelli qualitativi ormai molto vicini a quelli occidentali. In fin dei conti è già successo in passato che “nuovi entranti” sollevassero timori e preoccupazioni su un determinato mercato: è il caso dei costruttori giapponesi e del loro sbarco prima negli Stati Uniti e poi in Europa. A distanza di decenni, però, si può ben dire che le Case nipponiche non hanno raggiunto il tanto temuto predominio. Hanno sì alterato lo status quo ma, a voler ben vedere, hanno fornito un sensibile contributo al miglioramento tecnologico delle auto disponibili sul mercato. Insomma, la concorrenza giapponese ha fatto bene agli occidentali, più di quanto si possa immaginare. La domanda sorge dunque spontanea: cosa succederà con i cinesi?

Un po’ di storia. Per rispondere - almeno in parte - all’interrogativo, bisogna tornare indietro nel tempo per analizzare quanto successo proprio con i giapponesi. Fino al secondo dopoguerra, nessuno sapeva quali fossero i livelli raggiunti dai costruttori del Sol Levante e, sotto sotto, l’industria nipponica non faceva certo paura a europei e americani. Nato intorno al ventesimo secolo, il settore automobilistico del Giappone, come tanti altri comparti manifatturieri locali, è cresciuto all’insegna di una sorta di copia-incolla delle produzioni occidentali fino al secondo conflitto mondiale. La guerra, però, azzera completamente il tessuto industriale dello Stato: le Case automobilistiche riescono a risollevarsi grazie all’aiuto degli Stati Uniti e alla decisione di fare, come si suol dire, le nozze con i fichi secchi. In un Paese povero di materie prime e sostanzialmente raso al suolo dai bombardamenti, la rinascita arriva con le keicar: le micro-auto con non più di 150 centimetri cubici di cilindrata (successivamente cresciuta fino ad arrivare agli odierni 660). In fin dei conti è quello che succede anche in Europa: la Fiat dà il via alla motorizzazione di massa dell’Italia con la 500, mentre in Germania la BMW si salva dal fallimento con l'Isetta. Le keicar consentono ai giapponesi non solo di ripartire, ma anche di sviluppare soluzioni tecniche progettuali e manifatturiere all’avanguardia. Con la ripresa si pongono quindi le condizioni per una fase di espansione internazionale che, come ovvio, vede negli Stati Uniti il primo mercato di sbocco.

Il caso Toyota. La prima Casa a sbarcare al di là del Pacifico è la Toyota: nel 1957 apre la sua sede a Los Angeles e l’anno dopo immatricola la sua prima vettura. Successivamente l’esempio viene seguito dalla Honda che, a sua volta, è la prima ad aprire un suo impianto di assemblaggio in terra americana (nei primi anni '80, in Ohio). Inizialmente i giapponesi vengono accolti con un forte scetticismo. Le loro auto non sono certo comparabili per dimensioni ai tipici macchinoni a stelle e strisce, ma hanno caratteristiche uniche: consumano poco, hanno prezzi di listino bassi e, soprattutto, hanno una qualità elevata rispetto alle produzioni Made in Detroit. Da allora è stato un crescendo che ha portato benefici anche agli yankee: l’auto americana inizia a rispondere ai giapponesi, cercando di aumentare l’affidabilità, investendo in nuove tecnologie e migliorando i processi produttivi. Anche per questo la General Motor, la Ford e la Chrysler riescono a mantenere la leadership del mercato e non si fanno scalzare dai nipponici. La stessa cosa avviene, ma con qualche decennio di ritardo, anche in Europa, dove i giapponesi iniziano il loro sbarco dopo la metà degli anni '80, quando viene eliminata buona parte dei vincoli protezionisti in essere in numerosi Paesi europei. I costruttori del Sol Levante sono temuti anche nel Vecchio Continente, ma alla fine i risultati sono decisamente inferiori a quelli raggiunti in Nord America. A parte la Toyota, rimangono nelle retrovie del mercato nonostante una presenza rafforzata, in alcuni casi, pure da impianti produttivi. Insomma, l’Europa non è come gli Stati Uniti e sono diversi i casi di addio (Daihatsu abbandona del tutto il mercato, Mazda e Mitsubishi ridimensionano presenza produttiva e commerciale). Tuttavia anche qui la concorrenza dei giapponesi porta dei benefici: non a caso i loro metodi produttivi vengono via via imitati e implementati negli stabilimenti dei costruttori europei (tra le prime figura anche la Fiat, con il suo impianto di Melfi). 

Ora tocca al Dragone. Oggi i giapponesi, come anche i coreani, non fanno più paura e sono perfettamente integrati nel “sistema occidentale”. Ben diversa la situazione dei cinesi, diventati nel tempo più aggressivi anche facendo leva sulle ambizioni espansionistiche fortemente perseguite dalle autorità di Pechino. C’è però un prima e un dopo. Il prima è rappresentato dal motore a scoppio e in questo caso i costruttori del Dragone sono riusciti a fare ben poco per contrastare la leadership indiscussa degli occidentali: lo sbarco in Europa non ha prodotto nessun frutto sostanziale. Basti ricordare il caso della Qoros, tanto ambiziosa quanto fallimentare nei suoi propositi. Ben altra fortuna hanno avuto la Dongfeng e la Geely, ma con strategie fondate sull’acquisizione diretta di aziende europee in difficoltà. Se la prima si è fermata all’acquisto di una partecipazione di rilievo nell’ex Psa, la seconda ha macinato acquisizioni una dietro l’altra, partendo dalla Volvo per arrivare alla Lotus e, perfino, a una quota della Daimler, anche se solo per il tramite del suo fondatore Li Shufu. Tuttavia di auto cinesi se ne sono viste ben poche sul mercato europeo. Con l’elettrico la situazione si è ribaltata e alcuni numeri sono preoccupanti. Stando ai dati di Schmidt Automotive Research, nel primo semestre le vendite di Ev "Made in China" hanno raggiunto una quota del 4% del mercato europeo, a fronte del 3,7% delle giapponesi. Come è possibile? Per capire bisogna andare in Norvegia: azienda come Nio, Byd e Xpeng hanno scelto proprio il Paese scandinavo come testa di ponte per il loro sbarco massiccio in Europa e lì stanno conquistando, gradualmente, una crescente fetta del mercato. In altri mercati ha premiato la scelta di puntare su marchi "europei": è il caso della Saic con la MG, un tempo fiore all’occhiello dell’automotive britannico ma oggi esclusivamente cinese. Inoltre, le Tesla Model 3 commercializzate in Europa arrivano per lo più dalla gigafactory di Shanghai.

Le leve strategiche. Del resto i cinesi possono contare su alcuni vantaggi competitivi che, in alcuni casi, sono difficilmente replicabili dagli europei o dagli statunitensi. Innanzitutto i bassi costi produttivi, tradizionale punto di forza dell’intero tessuto industriale del Dragone. Costi che vengono mantenuti bassi anche grazie alle politiche di lungo termine perseguite dalle autorità di Pechino. Oggi la Cina controlla gran parte della catena del valore delle batterie, il fulcro di ogni auto alla spina, e quindi può fare il bello e il cattivo tempo nel determinare l’evoluzione tecnologica della mobilità del futuro. Gli europei stanno rispondendo con un’ondata di investimenti per realizzare gigafactory, assicurarsi forniture stabili e sostenibili, oltre a sviluppare nuove soluzioni come le batterie allo stato solido, ma il divario accumulato negli anni rischia di essere comunque incolmabile. Gli europei potranno rispondere con la maggior qualità produttiva, ma anche in questo caso non è detto che si replichi quanto avvenuto con le auto a combustione interna tradizionali. Non a caso il vicepresidente della Volvo, Robin Page, ha ammesso pubblicamente che le vetture del marchio svedese realizzate nella Repubblica Popolare sono di qualità superiore rispetto a quelle prodotte in Europa. "Quello che stiamo scoprendo, in realtà, è che la qualità delle auto è effettivamente migliore nella fabbrica di Daqing di quanto non lo sia in Europa", ha affermato Page, attribuendo il miglioramento della qualità cinese alla minor tolleranza nei confronti delle inefficienze e al minor uso dell’automazione industriale. "Non c’è una differenza enorme tra produzione europea e asiatica", ha aggiunto Page, "ma se si confronta punto per punto e nelle medie di produzione, la qualità cinese è assolutamente buona". Dunque per gli occidentali c’è da preoccuparsi, anche se possono ancora far leva sulla percezione di scarsa affidabilità e qualità che ancora domina il pensiero dei consumatori europei. Quando però è il costo a rappresentare l’elemento cruciale nelle scelte d’acquisto, come nel caso delle elettriche, allora la questione dell'origine del prodotto sparisce del tutto. È già successo in tanti altri settori: il caso degli smartphone e dell’elettronica di consumo in generale ne è una prova. L’unico modo per gli europei di rispondere all’avanza cinese è quello di puntare sull’innovazione, ma anche in questo campo l’Europa ha molto terreno da recuperare. Insomma, l’invasione cinese è appena iniziata ma fa già paura. 

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